Dominique Venner, Le choc de l'histoire
vendredi, 13 septembre 2013
La morte per Jünger: l’inizio di un qualcosa
La morte per Jünger: l’inizio di un qualcosa
di Luigi Iannone
Ex: http://www.azionetradizionale.com
La grandezza di Ernst Jünger sta nell’aver conosciuto e intellettualmente dominato il moderno carattere faustiano della tecnica, gli scenari di crisi aperti dai totalitarismi e di aver intuito l’accelerazione del tempo. E, infatti, in Italia, la sua recezione si snoda attraverso una mole enorme di saggi scientifici che ne scandagliano in profondità questi aspetti. La biografia scritta da Heimo Schwilk (Ernst Junger. Una vita lunga un secolo, Effatà editrice, pp.720), amico personale di Jünger, è la prima nel nostro Paese e quindi apre finalmente una prospettiva completamente nuova integrando i temi della produzione saggistica con le vicende private.
Come era la giornata tipo di Jünger?
«Non era uno scrittore disciplinato, faceva quello che in quel momento gli passava per la mente. Sulla scrivania c’erano sempre più progetti in contemporanea, lettere, manoscritti, su due o tre livelli, e sempre tantissimi insetti. Ma si faceva facilmente distogliere dal lavoro. Bastava si presentasse una persona interessante per indurlo ad alzarsi e a dedicarsi ad essa. E poi amava moltissimo la televisione e guardava i telefilm del Tenente Colombo.»
Commentava le lotte partitiche degli anni ottanta?
«Aveva un distacco totale. Quando il cancelliere Helmut Schmidt perse le elezioni e Helmut Kohl divenne cancelliere, il suo commento fu laconico: “Un Helmut va, un Helmut viene”. Kohl ha cercato molto la vicinanza di Jünger, perché riteneva che la cosa gli desse prestigio, per cui andava spesso a trovarlo. Io gli chiesi: “Come mai viene così spesso?” Lui mi rispose: “Adesso basta, la mia capacità di averlo vicino è arrivata al limite”.»
In privato che giudizio dava di Kohl, Mitterand e Gonzalez?
«Kohl non era un intenditore di letteratura né un conoscitore dell’opera jüngeriana. Discorreva soprattutto della sua storia personale e Jünger ascoltava senza essere coinvolto. Quando intervenne al novantesimo compleanno di Jünger, quest’ultimo aveva appena pubblicato Un incontro pericoloso; nella dedica ironicamente gli scrisse: “Dopo un incontro non pericoloso”. Con Mitterand il dialogo era facilitato dal fatto che il Presidente francese aveva una profonda conoscenza della sua opera e nel suo staff personale c’era anche un traduttore dei libri di Jünger. González era invece un intenditore di botanica e quindi si trovavano in sintonia su questo tema.»
Il crollo del Muro lo colpì enormemente.
«“Sono molto felice che la Germania è stata riunificata”, fu il suo primo commento. Poi fece una pausa e aggiunse: “Ma ne manca ancora un terzo”, riferendosi ai territori ancora oggi parte di Polonia e Russia.»
Ha mai parlato del fatto di non aver ricevuto il Premio Nobel?
«Con me non ha mai parlato del Nobel, ma io so che l’ambasciatore Dufner, profondo conoscitore di Jünger, si era rivolto al governo tedesco affinché lo proponesse al comitato del Nobel; la risposta fu che rischiava di non essere accettato e questo sarebbe stato negativo per la sua reputazione. Fu una scusa. Comunque è nella Bibliothèque de la Pléiade dell’editore Gallimard. E lì ci sono soltanto tre tedeschi: Kafka, Brecht e Jünger.»
Come affrontò la morte?
«Ne parlava dicendo che la morte era per lui una grande curiosità. La stava aspettando perché la considerava l’inizio di un qualcosa. Aveva fatto una collezione delle ultime parole di molte persone che stavano per morire, perché voleva capire cosa si provasse di fronte alla morte. Ma la sua morte non è stata spettacolare; è morto in ospedale, anche se avevano già comprato un letto speciale per poterlo accudire a casa. Ho chiesto alla moglie se avesse detto un’ultima frase e mi ha risposto che il giorno prima aveva parlato tantissimo, ma al momento di lasciare questa vita è rimasto muto, impenetrabile. L’ultimo anno godeva di buona salute, ma la sua scrivania era praticamente vuota, non faceva quasi più niente: “Dopo cent’anni”, disse, “è stato detto abbastanza”. »
Può chiarirci le idee sulla questione della conversione?
«Jünger aveva sempre avuto una predisposizione favorevole verso il cattolicesimo, specie perché la madre, bavarese, era cattolica mentre il padre era protestante. Insomma, era come vivere un ecumenismo familiare che gli aveva dato una grande apertura su questi temi. Negli anni Venti gli piaceva molto il cattolicesimo perché era una religione combattiva, difensiva di norme certe, mentre da parte dei protestanti vedeva un abbandono di queste posizioni che avrebbe poi portato a quelli che definiva due grandi tradimenti: quello dei Deutsche Christen, schierati con il nazismo e quello della Kirche im Sozialismus integrata nel sistema comunista. Ammirava tantissimo i Gesuiti e il loro stile di vita e negli ultimi anni, viveva non lontano da casa sua un prete polacco che aveva combattuto il comunismo ed era stato vicino a Karol Wojtyła. Questo fatto lo attirava non poco. Si è convertito a 101 anni dicendo: “Adesso è venuto il momento di tornare nel luogo a me familiare, il cattolicesimo che ho conosciuto da mia madre”.»
Fonte: Il Borghese- Agosto, Settembre 2013
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jeudi, 12 septembre 2013
Ernst Jünger: The Resolute Life of an Anarch
Ernst Jünger: The Resolute Life of an Anarch 8
by Keith Preston
Ex: http://www.attackthesystem.com
Perhaps the most interesting, poignant and, possibly, threatening type of writer and thinker is the one who not only defies conventional categorizations of thought but also offers a deeply penetrating critique of those illusions many hold to be the most sacred. Ernst Junger (1895-1998), who first came to literary prominence during Germany’s Weimar era as a diarist of the experiences of a front line stormtrooper during the Great War, is one such writer. Both the controversial nature of his writing and its staying power are demonstrated by the fact that he remains one of the most important yet widely disliked literary and cultural figures of twentieth century Germany. As recently as 1993, when Junger would have been ninety-eight years of age, he was the subject of an intensely hostile exchange in the “New York Review of Books” between an admirer and a detractor of his work.(1) On the occasion of his one hundreth birthday in 1995, Junger was the subject of a scathing, derisive musical performed in East Berlin. Yet Junger was also the recipient of Germany’s most prestigious literary awards, the Goethe Prize and the Schiller Memorial Prize. Junger, who converted to Catholicism at the age of 101, received a commendation from Pope John Paul II and was an honored guest of French President Francois Mitterand and German Chancellor Helmut Kohl at the Franco-German reconciliation ceremony at Verdun in 1984. Though he was an exceptional achiever during virtually every stage of his extraordinarily long life, it was his work during the Weimar period that not only secured for a Junger a presence in German cultural and political history, but also became the standard by which much of his later work was evaluated and by which his reputation was, and still is, debated. (2)
Ernst Junger was born on March 29, 1895 in Heidelberg, but was raised in Hanover. His father, also named Ernst, was an academically trained chemist who became wealthy as the owner of a pharmaceutical manufacturing business, finding himself successful enough to essentially retire while he was still in his forties. Though raised as an evangelical Protestant, Junger’s father did not believe in any formal religion, nor did his mother, Karoline, an educated middle class German woman whose interests included Germany’s rich literary tradition and the cause of women’s emancipation. His parents’ politics seem to have been liberal, though not radical, in the manner not uncommon to the rising bourgeoise of Germany’s upper middle class during the pre-war period. It was in this affluent, secure bourgeoise environment that Ernst Junger grew up. Indeed, many of Junger’s later activities and professed beliefs are easily understood as a revolt against the comfort and safety of his upbringing. As a child, he was an avid reader of the tales of adventurers and soldiers, but a poor academic student who did not adjust well to the regimented Prussian educational system. Junger’s instructors consistently complained of his inattentiveness. As an adolescent, he became involved with the Wandervogel, roughly the German equivalent of the Boy Scouts.(3)
It was while attending a boarding school near his parents’ home in 1913, at the age of seventeen, that Junger first demonstrated his first propensity for what might be called an “adventurist” way of life. With only six months left before graduation, Junger left school, leaving no word to his family as to his destination. Using money given to him for school-related fees and expenses to buy a firearm and a railroad ticket to Verdun, Junger subsequently enlisted in the French Foreign Legion, an elite military unit of the French armed forces that accepted enlistees of any nationality and had a reputation for attracting fugitives, criminals and career mercenaries. Junger had no intention of staying with the Legion. He only wanted to be posted to Africa, as he eventually was. Junger then deserted, only to be captured and sentenced to jail. Eventually his father found a capable lawyer for his wayward son and secured his release. Junger then returned to his studies and underwent a belated high school graduation. However, it was only a very short time later that Junger was back in uniform. (4)
Warrior and War Diarist
Ernst Junger immediately volunteered for military service when he heard the news that Germany was at war in the summer of 1914. After two months of training, Junger was assigned to a reserve unit stationed at Champagne. He was afraid the war would end before he had the opportunity to see any action. This attitude was not uncommon among many recruits or conscripts who fought in the war for their respective states. The question immediately arises at to why so many young people would wish to look into the face of death with such enthusiasm. Perhaps they really did not understand the horrors that awaited them. In Junger’s case, his rebellion against the security and luxury of his bourgeoise upbringing had already been ably demonstrated by his excursion with the French Foreign Legion. Because of his high school education, something that soldiers of more proletarian origins lacked, Junger was selected to train to become an officer. Shortly before beginning his officer’s training, Junger was exposed to combat for the first time. From the start, he carried pocket-sized notebooks with him and recorded his observations on the front lines. His writings while at the front exhibit a distinctive tone of detachment, as though he is simply an observer watching while the enemy fires at others. In the middle part of 1915, Junger suffered his first war wound, a bullet graze to the thigh that required only two weeks of recovery time. Afterwards, he was promoted to the rank of lieutenant.(5)
At age twenty-one, Junger was the leader of a reconnaissance team at the Somme whose purpose was to go out at night and search for British landmines. Early on, he acquired the reputation of a brave soldier who lacked the preoccupation with his own safety common to most of the fighting men. The introduction of steel artifacts into the war, tanks for the British side and steel helmets for the Germans, made a deep impression on Junger. Wounded three times at the Somme, Junger was awarded the Iron Medal First Class. Upon recovery, he returned to the front lines. A combat daredevil, he once held out against a much larger British force with only twenty men. After being transferred to fight the French at Flanders, he lost ten of his fourteen men and was wounded in the left hand by a blast from French shelling. After being harshly criticized by a superior officer for the number of men lost on that particular mission, Junger began to develop a contempt for the military hierarchy whom he regarded as having achieved their status as a result of their class position, frequently lacking combat experience of their own. In late 1917, having already experienced nearly three full years of combat, Junger was wounded for the fifth time during a surprise assault by the British. He was grazed in the head by a bullet, acquiring two holes in his helmet in the process. His performance in this battle won him the Knights Cross of the Hohenzollerns. In March 1918, Junger participated in another fierce battle with the British, losing 87 of his 150 men. (6)
Nothing impressed Junger more than personal bravery and endurance on the part of soldiers. He once “fell to the ground in tears” at the sight of a young recruit who had only days earlier been unable to carry an ammunition case by himself suddenly being able to carry two cases of missles after surviving an attack of British shells. A recurring theme in Junger’s writings on his war experiences is the way in which war brings out the most savage human impulses. Essentially, human beings are given full license to engage in behavior that would be considered criminal during peacetime. He wrote casually about burning occupied towns during the course of retreat or a shift of position. However, Junger also demonstrated a capacity for merciful behavior during his combat efforts. He refrained from shooting a cornered British soldier after the foe displayed a portrait of his family to Junger. He was wounded yet again in August of 1918. Having been shot in the chest and directly through a lung, this was his most serious wound yet. After being hit, he still managed to shoot dead yet another British officer. As Junger was being carried off the battlefield on a stretcher, one of the stretcher carriers was killed by a British bullet. Another German soldier attempted to carry Junger on his back, but the soldier was shot dead himself and Junger fell to the ground. Finally, a medic recovered him and pulled him out of harm’s way. This episode would be the end of his battle experiences during the Great War.(7)
In Storms of Steel
Junger’s keeping of his wartime diaries paid off quite well in the long run. They were to become the basis of his first and most famous book, In Storms of Steel, published in 1920. The title was given to the book by Junger himself, having found the phrase in an old Icelandic saga. It was at the suggestion of his father that Junger first sought to have his wartime memoirs published. Initially, he found no takers, antiwar sentiment being extremely high in Germany at the time, until his father at last arranged to have the work published privately. In Storms of Steel differs considerably from similar works published by war veterans during the same era, such as Erich Maria Remarque’s All Quiet on the Western Front and John Dos Passos’ Three Soldiers. Junger’s book reflects none of the disillusionment with war by those experienced in its horrors of the kind found in these other works. Instead, Junger depicted warfare as an adventure in which the soldier faced the highest possible challenge, a battle to the death with a mortal enemy. Though Junger certainly considered himself to be a patriot and, under the influence of Maurice Barres (8), eventually became a strident German nationalist, his depiction of military combat as an idyllic setting where human wills face the supreme test rose far above ordinary nationalist sentiments. Junger’s warrior ideal was not merely the patriot fighting out of a profound sense of loyalty to his country nor the stereotype of the dutiful soldier whose sense of honor and obedience compels him to follow the orders of his superiors in a headlong march towards death. Nor was the warrior prototype exalted by Junger necessarily an idealist fighting for some alleged greater good such as a political ideal or religious devotion. Instead, war itself is the ideal for Junger. On this question, he was profoundly influenced by Nietzsche, whose dictum “a good war justifies any cause”, provides an apt characterization of Junger’s depiction of the life (and death) of the combat soldier. (9)
This aspect of Junger’s outlook is illustrated quite well by the ending he chose to give to the first edition of In Storms of Steel. Although the second edition (published in 1926) ends with the nationalist rallying cry, “Germany lives and shall never go under!”, a sentiment that was deleted for the third edition published in 1934 at the onset of the Nazi era, the original edition ends simply with Junger in the hospital after being wounded for the final time and receiving word that he has received yet another commendation for his valor as a combat soldier. There is no mention of Germany’s defeat a few months later. Nationalism aside, the book is clearly about Junger, not about Germany, and Junger’s depiction of the war simultaneously displays an extraordinary level detachment for someone who lived in the face of death for four years and a highly personalized account of the war where battle is first and foremost about the assertion of one’s own “will to power” with cliched patriotic pieties being of secondary concern.
Indeed, Junger goes so far as to say there were winners and losers on both sides of the war. The true winners were not those who fought in a particular army or for a particular country, but who rose to the challenge placed before them and essentially achieved what Junger regarded as a higher state of enlightenment. He believed the war had revealed certain fundamental truths about the human condition. First, the illusions of the old bourgeoise order concerning peace, progress and prosperity had been inalterably shattered. This was not an uncommon sentiment during that time, but it is a revelation that Junger seems to revel in while others found it to be overwhelmingly devastating. Indeed, the lifelong champion of Enlightenment liberalism, Bertrand Russell, whose life was almost as long as Junger’s and who observed many of the same events from a much different philosophical perspective, once remarked that no one who had been born before 1914 knew what it was like to be truly happy.(10) A second observation advanced by Junger had to do with the role of technology in transforming the nature of war, not only in a purely mechanical sense, but on a much greater existential level. Before, man had commanded weaponry in the course of combat. Now weaponry of the kind made possible by modern technology and industrial civilization essentially commanded man. The machines did the fighting. Man simply resisted this external domination. Lastly, the supremacy of might and the ruthless nature of human existence had been demonstrated. Nietzsche was right. The tragic, Darwinian nature of the human condition had been revealed as an irrevocable law.
In Storms of Steel was only the first of several works based on his experiences as a combat officer that were produced by Junger during the 1920s. Copse 125 described a battle between two small groups of combatants. In this work, Junger continued to explore the philosophical themes present in his first work. The type of technologically driven warfare that emerged during the Great War is characterized as reducing men to automatons driven by airplanes, tanks and machine guns. Once again, jingoistic nationalism is downplayed as a contributing factor to the essence of combat soldier’s spirit. Another work of Junger’s from the early 1920s, Battle as Inner Experience, explored the psychology of war. Junger suggested that civilization itself was but a mere mask for the “primordial” nature of humanity that once again reveals itself during war. Indeed, war had the effect of elevating humanity to a higher level. The warrior becomes a kind of god-like animal, divine in his superhuman qualities, but animalistic in his bloodlust. The perpetual threat of imminent death is a kind of intoxicant. Life is at its finest when death is closest. Junger described war as a struggle for a cause that overshadows the respective political or cultural ideals of the combatants. This overarching cause is courage. The fighter is honor bound to respect the courage of his mortal enemy. Drawing on the philosophy of Nietzsche, Junger argued that the war had produced a “new race” that had replaced the old pieties, such as those drawn from religion, with a new recognition of the primacy of the “will to power”.(11)
Conservative Revolutionary
Junger’s writings about the war quickly earned him the status of a celebrity during the Weimar period. Battle as Inner Experience contained the prescient suggestion that the young men who had experienced the greatest war the world had yet to see at that point could never be successfully re-integrated into the old bougeoise order from which they came. For these fighters, the war had been a spiritual experience. Having endured so much only to see their side lose on such seemingly humiliating terms, the veterans of the war were aliens to the rationalistic, anti-militarist, liberal republic that emerged in 1918 at the close of the war. Junger was at his parents’ home recovering from war wounds during the time of the attempted coup by the leftist workers’ and soldiers’ councils and subsequent suppression of these by the Freikorps. He experimented with psychoactive drugs such as cocaine and opium during this time, something that he would continue to do much later in life. Upon recovery, he went back into active duty in the much diminished Germany army. Junger’s earliest works, such as In Storms of Steel, were published during this time and he also wrote for military journals on the more technical and specialized aspects of combat and military technology. Interestingly, Junger attributed Germany’s defeat in the war simply to poor leadership, both military and civilian, and rejected the “stab in the back” legend that consoled less keen veterans.
After leaving the army in 1923, Junger continued to write, producing a novella about a soldier during the war titled Sturm, and also began to study the philosophy of Oswald Spengler. His first work as a philosopher of nationalism appeared the Nazi paper Volkischer Beobachter in September, 1923.
Critiquing the failed Marxist revolution of 1918, Junger argued that the leftist coup failed because of its lacking of fresh ideas. It was simply a regurgitation of the egalitarian outllook of the French Revolution. The revolutionary left appealed only to the material wants of the Germany people in Junger’s views. A successful revolution would have to be much more than that. It would have to appeal to their spiritual or “folkish” instincts as well. Over the next few years Junger studied the natural sciences at the University of Leipzig and in 1925, at age thirty, he married nineteen-year-old Gretha von Jeinsen. Around this time, he also became a full-time political writer. Junger was hostile to Weimar democracy and its commercial bourgeiose society. His emerging political ideal was one of an elite warrior caste that stood above petty partisan politics and the middle class obsession with material acquisition. Junger became involved with the the Stahlhelm, a right-wing veterans group, and was a contributer to its paper, Die Standardite. He associated himself with the younger, more militant members of the organization who favored an uncompromised nationalist revolution and eschewed the parliamentary system. Junger’s weekly column in Die Standardite disseminated his nationalist ideology to his less educated readers. Junger’s views at this point were a mixture of Spengler, Social Darwinism, the traditionalist philosophy of the French rightist Maurice Barres, opposition to the internationalism of the left that had seemingly been discredited by the events of 1914, irrationalism and anti-parliamentarianism. He took a favorable view of the working class and praised the Nazis’ efforts to win proletarian sympathies. Junger also argued that a nationalist outlook need not be attached to one particular form of government, even suggesting that a liberal monarchy would be inferior to a nationalist republic.(12)
In an essay for Die Standardite titled “The Machine”, Junger argued that the principal struggle was not between social classes or political parties but between man and technology. He was not anti-technological in a Luddite sense, but regarded the technological apparatus of modernity to have achieved a position of superiority over mankind which needed to be reversed. He was concerned that the mechanized efficiency of modern life produced a corrosive effect on the human spirit. Junger considered the Nazis’ glorification of peasant life to be antiquated. Ever the realist, he believed the world of the rural people to be in a state of irreversible decline. Instead, Junger espoused a “metropolitan nationalism” centered on the urban working class. Nationalism was the antidote to the anti-particularist materialism of the Marxists who, in Junger’s views, simply mirrored the liberals in their efforts to reduce the individual to a component of a mechanized mass society. The humanitarian rhetoric of the left Junger dismissed as the hypocritical cant of power-seekers feigning benevolence. He began to pin his hopes for a nationalist revolution on the younger veterans who comprised much of the urban working class.
In 1926, Junger became editor of Arminius, which also featured the writings of Nazi leaders like Alfred Rosenberg and Joseph Goebbels. In 1927, he contributed his final article to the Nazi paper, calling for a new definition of the “worker”, one not rooted in Marxist ideology but the idea of the worker as a civilian counterpart to the soldier who struggles fervently for the nationalist ideal. Junger and Hitler had exchanged copies of their respective writings and a scheduled meeting between the two was canceled due to a change in Hitler’s itinerary. Junger respected Hitler’s abilities as an orator, but came to feel he lacked the ability to become a true leader. He also found Nazi ideology to be intellectually shallow, many of the Nazi movement’s leaders to be talentless and was displeased by the vulgarity, crassly opportunistic and overly theatrical aspects of Nazi public rallies. Always an elitist, Junger considered the Nazis’ pandering the common people to be debased. As he became more skeptical of the Nazis, Junger began writing for a wider circle of readers beyond that of the militant nationalist right-wing. His works began to appear in the Jewish liberal Leopold Schwarzchild’s Das Tagebuch and the “national-bolshevik” Ernst Niekisch’s Widerstand.
Junger began to assemble around himself an elite corps of bohemian, eccentric intellectuals who would meet regularly on Friday evenings. This group included some of the most interesting personalities of the Weimar period. Among them were the Freikorps veteran Ernst von Salomon, Otto von Strasser, who with his brother Gregor led a leftist anti-Hitler faction of the Nazi movement, the national-bolshevik Niekisch, the Jewish anarchist Erich Muhsam who had figured prominently in the early phase of the failed leftist revolution of 1918, the American writer Thomas Wolfe and the expressionist writer Arnolt Bronnen. Many among this group espoused a type of revolutionary socialism based on nationalism rather than class, disdaining the Nazis’ opportunistic outreach efforts to the middle class. Some, like Niekisch, favored an alliance between Germany and Soviet Russia against the liberal-capitalist powers of the West. Occasionally, Joseph Goebbels would turn up at these meetings hoping to convert the group, particularly Junger himself, whose war writings he had admired, to the Nazi cause. These efforts by the Nazi propaganda master proved unsuccessful. Junger regarded Goebbels as a shallow ideologue who spoke in platitudes even in private conversation.(13)
The final break between Ernst Junger and the NSDAP occurred in September 1929. Junger published an article in Schwarzchild’s Tagebuch attacking and ridiculing the Nazis as sell outs for having reinvented themselves as a parliamentary party. He also dismissed their racism and anti-Semitism as ridiculous, stating that according to the Nazis a nationalist is simply someone who “eats three Jews for breakfast.” He condemned the Nazis for pandering to the liberal middle class and reactionary traditional conservatives “with lengthy tirades against the decline in morals, against abortion, strikes, lockouts, and the reduction of police and military forces.” Goebbels responded by attacking Junger in the Nazi press, accusing him being motivated by personal literary ambition, and insisting this had caused him “to vilify the national socialist movement, probably so as to make himself popular in his new kosher surroundings” and dismissing Junger’s attacks by proclaiming the Nazis did not “debate with renegades who abuse us in the smutty press of Jewish traitors.”(14)
Junger on the Jewish Question
Junger held complicated views on the question of German Jews. He considered anti-Semitism of the type espoused by Hitler to be crude and reactionary. Yet his own version of nationalism required a level of homogeneity that was difficult to reconcile with the subnational status of Germany Jewry. Junger suggested that Jews should assimilate and pledge their loyalty to Germany once and for all. Yet he expressed admiration for Orthodox Judaism and indifference to Zionism. Junger maintained personal friendships with Jews and wrote for a Jewish owned publication. During this time his Jewish publisher Schwarzchild published an article examining Junger’s views on the Jews of Germany. Schwarzchild insisted that Junger was nothing like his Nazi rivals on the far right. Junger’s nationalism was based on an aristocratic warrior ethos, while Hitler’s was more comparable to the criminal underworld. Hitler’s men were “plebian alley scum”. However, Schwarzchild also characterized Junger’s rendition of nationalism as motivated by little more than a fervent rejection of bourgeoise society and lacking in attention to political realities and serious economic questions.(15)
The Worker
Other than In Storms of Steel, Junger’s The Worker: Mastery and Form was his most influential work from the Weimar era. Junger would later distance himself from this work, published in 1932, and it was reprinted in the 1950s only after Junger was prompted to do so by Martin Heidegger.
In The Worker, Junger outlines his vision of a future state ordered as a technocracy based on workers and soldiers led by a warrior elite. Workers are no longer simply components of an industrial machine, whether capitalist or communist, but have become a kind of civilian-soldier operating as an economic warrior. Just as the soldier glories in his accomplishments in battle, so does the worker glory in the achievements expressed through his work. Junger predicted that continued technological advancements would render the worker/capitalist dichotomy obsolete. He also incorporated the political philosophy of his friend Carl Schmitt into his worldview. As Schmitt saw international relations as a Hobbesian battle between rival powers, Junger believed each state would eventually adopt a system not unlike what he described in The Worker. Each state would maintain its own technocratic order with the workers and soldiers of each country playing essentially the same role on behalf of their respective nations. International affairs would be a crucible where the will to power of the different nations would be tested.
Junger’s vision contains a certain amount prescience. The general trend in politics at the time was a movement towards the kind of technocratic state Junger described. These took on many varied forms including German National Socialism, Italian Fascism, Soviet Communism, the growing welfare states of Western Europe and America’s New Deal. Coming on the eve of World War Two, Junger’s prediction of a global Hobbesian struggle between national collectives possessing previously unimagined levels of technological sophistication also seems rather prophetic. Junger once again attacked the bourgeoise as anachronistic. Its values of material luxury and safety he regarded as unfit for the violent world of the future. (16)
The National Socialist Era
By the time Hitler took power in 1933, Junger’s war writings had become commonly used in high schools and universities as examples of wartime literature, and Junger enjoyed success within the context of German popular culture as well. Excerpts of Junger’s works were featured in military journals. The Nazis tried to coopt his semi-celebrity status, but he was uncooperative. Junger was appointed to the Nazified German Academcy of Poetry, but declined the position. When the Nazi Party’s paper published some of his work in 1934, Junger wrote a letter of protest. The Nazi regime, despite its best efforts to capitalize on his reputation, viewed Junger with suspicioun. His past association with the national-bolshevik Ersnt Niekisch, the Jewish anarchist Erich Muhsam and the anti-Hitler Nazi Otto von Strasser, all of whom were either eventually killed or exiled by the Third Reich, led the Nazis to regard Junger as a potential subversive. On several occasions, Junger received visits from the Gestapo in search of some of his former friends. During the early years of the Nazi regime, Junger was in the fortunate position of being able to economically afford travel outside of Germany. He journeyed to Norway, Brazil, Greece and Morocco during this time, and published several works based on his travels.(17)
Junger’s most significant work from the Nazi period is the novel On the Marble Cliffs. The book is an allegorical attack on the Hitler regime. It was written in 1939, the same year that Junger reentered the German army. The book describes a mysterious villian that threatens a community, a sinister warlord called the “Head Ranger”. This character is never featured in the plot of the novel, but maintains a forboding presence that is universal (much like “Big Brother” in George Orwell’s 1984). Another character in the novel, “Braquemart”, is described as having physical characteristics remarkably similar to those of Goebbels. The book sold fourteen thousand copies during its first two weeks in publication. Swiss reviewers immediately recognized the allegorical references to the Nazi state in the novel. The Nazi Party’s organ, Volkische Beobachter, stated that Ernst Jünger was flirting with a bullet to the head. Goebbels urged Hitler to ban the book, but Hitler refused, probably not wanting to show his hand. Indeed, Hitler gave orders that Junger not be harmed.(18)
Junger was stationed in France for most of the Second World War. Once again, he kept diaries of the experience. Once again, he expressed concern that he might not get to see any action before the war was over. While Junger did not have the opportunity to experience the level of danger and daredevil heroics he had during the Great War, he did receive yet another medal, the Iron Cross, for retrieving the body of a dead corporal while under heavy fire. Junger also published some of his war diaries during this time. However, the German government took a dim view of these, viewing them as too sympathetic to the occupied French. Junger’s duties included censorship of the mail coming into France from German civilians. He took a rather liberal approach to this responsibility and simply disposed of incriminating documents rather than turning them over for investigation. In doing so, he probably saved lives. He also encountered members of France’s literary and cultural elite, among them the actor Louis Ferdinand Celine, a raving anti-Semite and pro-Vichyite who suggested Hitler’s harsh measures against the Jews had not been heavy handed enough. As rumors of the Nazi extermination programs began to spread, Junger wrote in his diary that the mechanization of the human spirit of the type he had written about in the past had apparently generated a higher level of human depravity. When he saw three young French-Jewish girls wearing the yellow stars required by the Nazis, he wrote that he felt embarrassed to be in the Nazi army. In July of 1942, Junger observed the mass arrest of French Jews, the beginning of implementation of the “Final Solution”. He described the scene as follows:
“Parents were first separated from their children, so there was wailing to be heard in the streets. At no moment may I forget that I am surrounded by the unfortunate, by those suffering to the very depths, else what sort of person, what sort of officer would I be? The uniform obliges one to grant protection wherever it goes. Of course one has the impression that one must also, like Don Quixote, take on millions.”(19)
An entry into Junger’s diary from October 16, 1943 suggests that an unnamed army officer had told Junger about the use of crematoria and poison gas to murder Jews en masse. Rumors of plots against Hitler circulated among the officers with whom Junger maintained contact. His son, Ernstl, was arrested after an informant claimed he had spoken critically of Hitler. Ernstl Junger was imprisoned for three months, then placed in a penal battalion where he was killed in action in Italy. On July 20, 1944 an unsuccessful assassination attempt was carried out against Hitler. It is still disputed as to whether or not Junger knew of the plot or had a role in its planning. Among those arrested for their role in the attemt on Hitler’s life were members of Junger’s immediate circle of associates and superior officers within the German army. Junger was dishonorably discharged shortly afterward.(20)
Following the close of the Second World War, Junger came under suspicion from the Allied occupational authorities because of his far right-wing nationalist and militarist past. He refused to cooperate with the Allies De-Nazification programs and was barred from publishing for four years. He would go on to live another half century, producing many more literary works, becoming a close friend of Albert Hoffman, the inventor of the hallucinogen LSD, with which he experimented. In a 1977 novel, Eumeswil, he took his tendency towards viewing the world around him with detachment to a newer, more clearly articulated level with his invention of the concept of the “Anarch”. This idea, heavily influenced by the writings of the early nineteenth century German philosopher Max Stirner, championed the solitary individual who remains true to himself within the context of whatever external circumstances happen to be present. Some sample quotations from this work illustrate the philosophy and worldview of the elderly Junger quite well:
“For the anarch, if he remains free of being ruled, whether by sovereign or society, this does not mean he refuses to serve in any way. In general, he serves no worse than anyone else, and sometimes even better, if he likes the game. He only holds back from the pledge, the sacrifice, the ultimate devotion … I serve in the Casbah; if, while doing this, I die for the Condor, it would be an accident, perhaps even an obliging gesture, but nothing more.”
“The egalitarian mania of demagogues is even more dangerous than the brutality of men in gallooned coats. For the anarch, this remains theoretical, because he avoids both sides. Anyone who has been oppressed can get back on his feet if the oppression did not cost him his life. A man who has been equalized is physically and morally ruined. Anyone who is different is not equal; that is one of the reasons why the Jews are so often targeted.”
“The anarch, recognizing no government, but not indulging in paradisal dreams as the anarchist does, is, for that very reason, a neutral observer.”
“Opposition is collaboration.”
“A basic theme for the anarch is how man, left to his own devices, can defy superior force – whether state, society or the elements – by making use of their rules without submitting to them.”
“… malcontents… prowl through the institutions eternally dissatisfied, always disappointed. Connected with this is their love of cellars and rooftops, exile and prisons, and also banishment, on which they actually pride themselves. When the structure finally caves in they are the first to be killed in the collapse. Why do they not know that the world remains inalterable in change? Because they never find their way down to its real depth, their own. That is the sole place of essence, safety. And so they do themselves in.”
“The anarch may not be spared prisons – as one fluke of existence among others. He will then find the fault in himself.”
“We are touching one a … distinction between anarch and anarchist; the relation to authority, to legislative power. The anarchist is their mortal enemy, while the anarch refuses to acknowledge them. He seeks neither to gain hold of them, nor to topple them, nor to alter them – their impact bypasses him. He must resign himself only to the whirlwinds they generate."
“The anarch is no individualist, either. He wishes to present himself neither as a Great Man nor as a Free Spirit. His own measure is enough for him; freedom is not his goal; it is his property. He does not come on as foe or reformer: one can get along nicely with him in shacks or in palaces. Life is too short and too beautiful to sacrifice for ideas, although contamination is not always avoidable. But hats off to the martyrs.”
“We can expect as little from society as from the state. Salvation lies in the individual.” (21)
Notes:
1. Ian Buruma, “The Anarch at Twilight”, New York Review of Books, Volume 40, No. 12, June 24, 1993. Hilary Barr, “An Exchange on Ernst Junger”, New York Review of Books, Volume 40, No. 21, December 16, 1993.
2. Nevin, Thomas. Ernst Junger and Germany: Into the Abyss, 1914-1945. Durham, N.C.: Duke University Press, 1996, pp. 1-7. Loose, Gerhard. Ernst Junger. New York: Twayne Publishers, 1974, preface.
3. Nevin, pp. 9-26. Loose, p. 21
4. Loose, p. 22. Nevin, pp. 27-37.
5. Nevin. p. 49.
6. Ibid., p. 57
7. Ibid., p. 61
8. Maurice Barrès (September 22, 1862 - December 4, 1923) was a French novelist, journalist, an anti-semite, nationalist politician and agitator. Leaning towards the far-left in his youth as a Boulangist deputy, he progressively developed a theory close to Romantic nationalism and shifted to the right during the Dreyfus Affair, leading the Anti-Dreyfusards alongside Charles Maurras. In 1906, he was elected both to the Académie française and as deputy of the Seine department, and until his death he sat with the conservative Entente républicaine démocratique. A strong supporter of the Union sacrée(Holy Union) during World War I, Barrès remained a major influence of generations of French writers, as well as of monarchists, although he was not a monarchist himself. Source: http://en.wikipedia.org/wiki/Maurice_Barr%C3%A8s
9. Nevin, pp. 58, 71, 97.
10. Schilpp, P. A. “The Philosophy of Bertrand Russell”. Reviewed Hermann Weyl, The American Mathematical Monthly, Vol. 53, No. 4 (Apr., 1946), pp. 208-214.
11. Nevin, pp. 122, 125, 134, 136, 140, 173.
12. Ibid., pp. 75-91.
13. Ibid., p. 107
14. Ibid., p. 108.
15. Ibid., pp. 109-111.
16. Ibid., pp. 114-140.
17. Ibid., p. 145.
18. Ibid., p. 162
19. Ibid., p. 189.
20. Ibid., p. 209.
21. Junger, Ernst. Eumeswil. New York: Marion Publishers, 1980, 1993.
Bibliography
Barr, Hilary. “An Exchange on Ernst Junger”, New York Review of Books, Volume 40, No. 21, December 16, 1993.
Braun, Abdalbarr. “Warrior, Waldgaenger, Anarch: An Essay on Ernst Junger’s Concept of the Sovereign Individual”. Archived at http://www.fluxeuropa.com/juenger-anarch.htm
Buruma, Ian. “The Anarch at Twilight”, New York Review of Books, Volume 40, No. 12, June 24, 1993.
Hofmann, Albert. LSD: My Problem Child, Chapter Seven, “Radiance From Ernst Junger”. Archived at http://www.flashback.se/archive/my_problem_child/chapter7.html
Loose, Gerhard. Ernst Junger. New York: Twayne Publishers, 1974.
Hervier, Julien. The Details of Time: Conversations with Ernst Junger. New York: Marsilio Publishers, 1986.
Junger, Ernst. Eumeswil. New York: Marsilio Publishers, 1980, 1993.
Junger, Ernst. In Storms of Steel. New York: Penguin Books, 1920, 1963, 2003.
Junger, Ernst. On the Marble Cliffs. New York: Duenewald Printing Corporation, 1947.
Nevin, Thomas. Ernst Junger and Germnay: Into the Abyss, 1914-1945. Durham, N.C.: Duke University Press, 1996.
Schilpp, P. A. “The Philosophy of Bertrand Russell”. Reviewed Hermann Weyl, The American Mathematical Monthly, Vol. 53, No. 4 (Apr., 1946), pp. 208-214.
Stern, J. P. Ernst Junger. New Haven: Yale University Press, 1953.
Zavrel, Consul B. John. “Ernst Junger is Still Working at 102″. Archived at http://www.meaus.com/Ernst%20Junger%20at%20102.html
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jeudi, 11 juillet 2013
Ernst Jünger et la révolution conservatrice
Dominique Venner, Le choc de l'histoire
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dimanche, 30 juin 2013
„Jetzt ist Ewigkeit“
„Jetzt ist Ewigkeit“
von Christoph George
Ex: http://www.blauenarzisse.de/
Mit „Letzte Worte“ veröffentlicht Jörg Magenau eine umfangreiche Auswahl letzter Worte namhafter Persönlichkeiten aus dem Nachlaß Ernst Jüngers.
Bereits in einem der Pariser Tagebücher äußerte Ernst Jünger die Idee, eine Sammlung letzter Worte anzulegen. Auf ihre Veröffentlichung wartete seine Leserschaft jedoch zu Lebzeiten des Meisters vergeblich. Was er selbst nicht mehr tat, bringt nun der Autor und Literaturkritiker Jörg Magenau in einem edlen Sammelband heraus.
Magenau wählte für das Buch vor allem bekannte Persönlichkeiten der Geschichte aus, von Abraham bis Ulrich Zwingli. Schöpfen konnte er dabei aus einer breiten Jüngerschen Sammlung, welche mehrere Tausend Karteikarten umfasst und vollständig im Deutschen Literaturarchiv in Marburg liegt. Jene stellte Ernst Jünger vor allem in der Zeit nach dem 2. Weltkrieg aus anderen Nachschlagewerken zu diesem Thema zusammen. Aber auch vorgedruckte Karteikarten, welche er zum Ausfüllen an Freunde und Bekannte verteilte, finden sich darin wieder.
Sokrates: „Kriton, wir schulden dem Äskulap noch einen Hahn. Vergeßt nicht, die Schuld zu bezahlen!“
Als Vorwort dient eine unvollendete Abhandlung Jüngers aus den frühen 1960ern, in welcher er auf die Besonderheiten letzter Worte eingeht. Demnach sind nicht alle letzten Worte für eine Aufnahme in einen solchen auserwählten Kreis geeignet. Es fallen jene finalen Äußerungen heraus, welche ein noch zu starkes Klammern am Diesseits erkennen lassen. Erst ein gewisses Maß an Loslassen verleiht ihnen überhaupt den Charakter letzter Worte, wenngleich sie auch noch auf das Leben gerichtet sein mögen. Von Sokrates ist überliefert, er hätte an die Begleichung einer Schuld erinnert, bevor er zum Schluck aus dem Schierlingsbecher ansetzte.
Weiterhin besitzt zuletzt Gesprochenes für die Nachwelt etwas Prophetisches. Ihm geht zumeist aufgrund ungenauer Überlieferung und mehrfachen Interpretationsmöglichkeiten ein gesicherter historischer Gehalt ab. Sie sind so eher dem Bereich des Mythischen zuzuschreiben, haben anekdotischen Charakter. Die gute Anekdote will hier mit Begleitumständen erscheinen, um so der Dichtung näher zu kommen. Sie enthüllt dabei das Wesen der Dinge und erfaßt so ihren eigentlichen Kern. Deswegen würde es dem Gehalt der überlieferten letzten Worte auch keinen Abbruch tun, erwiesen sich einige im Nachhinein als falsch: „Trotzdem summieren sie sich zur Wahrheit, die ihnen innewohnt“, schlußfolgert Jünger.
Im Angesicht des Todes die Haltung wahren
Unterteilt ist die von Ernst Jünger selbst teilweise kommentierte Sammlung nach verschiedenen Themenbereichen wie etwa: Lebensbilanzen, letzte Einsichten und Anrufungen, Gebete. Hier stechen vor allem tiefsinnige Sprüche hervor, wie z.B. der des schwedischen Erzbischofs Nathan Söderblom: „Jetzt ist Ewigkeit“. Aber auch höchst unfreiwillig komische Varianten sind darin versammelt. Die letzten Worte Egon Friedells, welcher sich 1938 in Wien aus dem Fenster stürzte, sollen zum unten stehenden Hauswirt gewesen sein: „Bitt‘ schön, gehn’s zur Seite!“
Für Jünger sind jedoch nicht alle gültigen letzten Worte gleich zu werten. So kommentierte er den Abschied Elisabeths I. von England: „Alle meine Schätze für eine einzige Minute“, kurz und knapp mit: „Recht unköniglich“. Im Gegensatz dazu wird ein unbekannter Soldat aus dem Deutsch-Französischen Krieg von 1870 aufgeführt. Der Eintrag hierzu lautet „,Herr Hauptmann, melde gehorsamst, daß ich tödlich getroffen bin!‘ salutierte stramm der Obergefreite Müller am nämlichen Geschütz, indem er noch weiterbediente.“ Im Angesicht des Unausweichlichen will die Haltung gewahrt bleiben – eine Forderung, die man vom frühen Jünger nur zu gut kennt.
Augustinus: „Laß mich sterben, mein Gott, daß ich lebe!“
Die Beschäftigung mit letzten Worten führt den Leser dabei nicht nur an das individuelle Lebensende des jeweiligen Protagonisten. Es zwingt ihn darüber hinaus zu einer Beschäftigung mit jener Grenze, die auch er einmal überschreiten muß. Das letzte Wort ist somit, trotz seiner Vagheit, in ein transzendentes Verhältnis zu setzen. „Dies also war sein zuletzt gesprochenes auf Erden – und dann?“ Die Lektüre ist deswegen weniger im Sinne eines reinen Nachschlagewerkes konkreter letzter Sätze interessant. Sie lohnt sich vielmehr, da sie zu einer persönlichen Auseinandersetzung mit dem Tode zwingt. Was das Buch zu einem guten Geschenktip werden läßt für diejenigen, welche einem nahe stehen, aber in ihrer Lebensart entschieden zu sehr an der Oberfläche der Welt verbleiben.
Den Schluß des Buches bildet ein Nachwort Magenaus, in welchem er einen engeren Bezug zwischen Ernst Jünger und unserer Gegenwart herstellt. So zitiert er hier Jünger damit, was dieser über eine USA-Reise im Januar 1958 schrieb: „Die Uhren gehen dort vor – und wie seinerzeit Tocqueville, so können auch wir heute ablesen, was uns blühen wird – eine Welt, die den Tod und die Liebe nicht kennt. Das hat mich unendlich bestürzt, obwohl es ja nur eine Bestätigung war.“ Magenau kommentiert dies anschließend ganz richtig mit: „In der Begegnung mit dem Tod kommt der Mensch zu sich selbst; will er vom Tod nichts mehr wissen, dann verleugnet er auch das Leben.“
Nach einem letzten Wort Ernst Jüngers sucht der Leser indes leider vergeblich. Was aber auch nicht weiter verwunderlich ist; die eigenen letzten Worte schreibt man selbst eben nicht mehr nieder.
Jörg Magenau (Hrsg.): Ernst Jünger – Letzte Worte. 245 Seiten, Klett-Cotta Verlag 2013. 22,95 Euro.
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lundi, 15 avril 2013
Ernst Jünger: yo soy la acción
Ernst Jünger: yo soy la acción
por José Luis Ontiveros
Ex: http://culturatransversal.wordpress.com/
En torno a la obra del escritor alemán Ernst Jünger se ha producido una polémica semejante a la que preocupó a los teólogos españoles en relación con la existencia del alma de los indios. De alguna manera, el hecho de que se le haya discutido en medios intelectuales mundiales con asiduidad, y el que una nueva política literaria tienda a revalorizarlo, le otorga, como lo hizo a los naturales el Papa Paulo III, la posibilidad de una lectura conversa; ya no traumatizada por su historia maldita, absolutoria de su derecho a la diferencia, y exoneradora de un pasado marcado por la gloria y la inmundicia.
La polémica sobre Jünger que en medio de lamentaciones previsorias sobre su “ceguera histórica” ha reconocido la posibilidad de que también poseía un alma personal, se ha mantenido, sin embargo, en los límites del conocimiento de su obra.
Pareciera que profundizar en Jünger puede indicar de alguna manera una proclividad secreta, una oscura complicidad con este peligroso ”junker”, intelectual orgánico de los desarraigados, al que se suele evocar como el cazador y animal de presa, que en la adolescencia se enrola en la Legión Extranjera francesa, testimonio que deja en Juegos Africanos; se le presenta como situado ”de pronto a la sombra de las espadas” (1), y esta exaltación hecha tipología se presenta como el truco con que se evade el contenido de su obra. Por ello debe partirse de un principio: Jünger sigue siendo el mismo, es un réprobo permanente y resuelto, una conciencia erguida y soberana: “yo siempre he tenido las mismas ideas, sólo que la perspectiva ha cambiado con los años” (2). En Jünger hay una sola línea ascendente, un impulso de creación unívoco que arranca en 1920 con Tempestades de Acero, se afirma en Juegos Africanos, obra intermedia, que precede a En los acantilados de mármol (1939), Heliópolis (1940), y Eumeswil (1977).
Resulta entonces necesario para llegar a Heliópolis y a un acercamiento a su comprensión, hacer referencia a un problema histórico. Jünger en la línea de Saint-Exupéry y de Henry de Montherlant ama la acción como el supremo valor de la vida: no existe una renuncia a las pompas del mal, a los frutos concretos de la acción. Hay, al contrario, a lo largo de su obra, un reflejo centelleante que nace de la negación deliberada de la bondad; un aliento nietzscheano de que ”no encontraremos nada grande que no lleve consigo un gran crimen”. Por ello es que debe ahorrarse la gratuidad de perdonarlo, de ver en Jünger al intelectual víctima de sus demonios. De esta forma si Jünger ha padecido un Núremberg simbólico, la actitud rectora de su creación ha permanecido firme sobre la marejada, sobre los prejuicios políticos y aún sobre la ”conmiseración” que nunca ha necesitado. No hay en su obra, como producto de la derrota de Alemania en la II Guerra Mundial, una disociación de un antes y un después; una versión suavizada del mal, que habría retrocedido de su estado agudo a su estado moderado.
Por ello, si su texto La Guerra, nuestra madre escrito en 1934 ha recorrido una suerte semejante a Bagatelas para una masacre de Louis Ferdinand Céline, en el sentido de que ambos son unánimemente ”condenados” y prácticamente inencontrables a excepción de fragmentos; el joven escritor alemán, que afirmaba que: ” la voluptuosidad de la sangre flota por encima de la guerra como una vela roja sobre una galera sombría” (3), es el mismo que canta el poder de la sangre, treinta y un años después de cieno, fuego y derrota: ”los gigantescos cristales tienen forma de lanzas y cuchillos, como espadas de colores grises y violetas, cuyos filos se han templado en el ardiente soplo de fuego de fraguas cósmicas” (4).
El nuevo intelectual
El viejo ”junker”, ha nacido como hijo de la burguesía industrial tradicional, en Heidelberg, el 29 de marzo de 1895, ha permanecido a sus 93 años de edad como un fiel artesano de sus sueños, un celoso guardián de sus obsesiones, un claro partidario de la acción. Por otra parte, se presenta el problema histórico. Jünger, herido siete veces en la I Guerra Mundial, portador de la Cruz de Hierro de primera clase y de la condecoración “Pour le Mérite” (la más alta del Ejército Alemán); miembro juvenil de los “cascos de acero” y de los ”bolcheviques nacionales”; y ayudante del gobernador militar de París durante la ocupación alemana, es un nuevo intelectual, que rompe con el molde tradicional que tiene de la función intelectual la Ilustración y la cultura burguesa. En cierta medida corresponde a los atributos que describe Gramsci del “nuevo” intelectual: “el modo de ser del nuevo intelectual ya no puede consistir en la elocuencia motora, exterior y momentánea, de los efectos y de las pasiones, sino que el intelectual aparece insertado activamente en la vida práctica, como constructor, organizador, persuasivo permanentemente” (5). En este sentido Jünger va más allá de la “elocuencia motora”, de la relación productiva y mecánica de una condición económica precisa.
Puede decirse entonces que si bien Jünger tiene atributos de “junker” prusiano, teniendo parentesco con la ”casta sacerdotal militar que tiene un monopolio casi total de las funciones directivas organizativas de la sociedad política” (6), esta relación funcional y productiva está rota en el caos, en el nihilismo y la decepción que acompañan a la derrota de Alemania en la I Guerra Mundial. Jünger, que quizá en la época guillermina del orgulloso II Reich, hubiera podido reproducir las características de su clase, se encuentra libre de todo orden social como un intelectual del desarraigo, de la tribu de los nómadas en el poderoso grupo disperso de los solitarios que han luchado en las trincheras.
Detengámonos en el análisis de este estado espiritual y de esta circunstancia histórica, cuya trascendencia se manifiesta en toda su narrativa, especialmente en el carácter unitario de su obra y en su posición ideológica, lo que a su vez nos permitirá comprender la clave de una de sus novelas más significativas del período de la última postguerra: Heliópolis, cuyos nervios se hallan ya entre el tumulto que sobrecoge al joven Jünger, como un brillante fruto de la acción interna que sujetará su espíritu.
Así podremos apreciar cabalmente a este autor central de la literatura alemana del siglo XX, para determinar cuál es el rostro que se ha cincelado, en la multiplicidad de espectros que lo reflejan con caras distintas. ¿Acaso es Jünger, como quiere Erich Kahler, al que “incumbe la mayor responsabilidad por haber preparado a la juventud alemana para el estado nazi, aunque él mismo nunca haya profesado el nazismo?” (7). ¿Se trata del escéptico autor de la ”dystopía” o utopía congelada que se expresa en su relato Eumeswil? ¿Quién es entonces este contardictorio anarquista autoritario?
La trilogía del desarraigo
Podemos intentar responder con un juego de conceptos en los que se articulase su radiografía espiritual, con su naturaleza compleja y una historia convulsionada y devoradora. Esta visión nos dará un Jünger revelado en una trilogía: se trata del demiurgo del mito de la sangre, del cantor del complejo de inferioridad nihilista de la cultura alemana, del emisario del dominio del hombre faústico y guerrero. Sólo así podremos entender cómo Jünger pudo dirigir desde “fuera de sí” un pelotón de fusilamiento, certificar la estética del dolor con una “segunda conciencia más fría” o experimentar los viajes místicos del LSD o de la mezcalina. Requerimos verlo en su dimensión auténtica: la del “condottiero” que huye hacia delante en un mundo ruinoso.
Memorias de un condottiero
La aventura de Jünger cobra el símbolo de una organicidad rotunda enla relación social del intelectual con la producción de una clase concreta; se trata fundamentalmente de una personalidad que de alguna manera expresa Drieu la Rochelle: ”(es) el hombre de mano comunista, el hombre de las ciudades, neurasténico, excitado por el ejemplo de los fascios italianos, así como por el de los mercenarios de las guerras chinas, de los soldados de la Legión Extranjera” (8). Se verdadera patria son las llamas, la tensión del combate, la experiencia de la guerra. Su conformación íntima se encuentra manifestada en otro de aquellos que vivieron ”la encarnación de una civilización en sus últimas etapas de decadencia y disolución”, así dice Ernst Von Salomon en Los proscritos: ”sufríamos al sentir que en medio del torbellino y pese a todos los acontecimientos, las fatalidades, la verdad y la realidad siempre estaban ausentes” (9). Es este el territorio en que Jünger preparará la red invisible de su obra, recogiendo las brasas, los escombros, las banderas rotas. Cuando todo en Alemania se tambalea: se cimbran los valores humanitarios y cristianos, la burguesía se declara en bancarrota y los espartaquistas establecen la efímera República de Münich, aparecen los elementos vitales de su escritura, que atesorará como una trinchera imbatible heredera del limo, con la llave precisa que abrirá las puertas de la putrefacción a la literatura.
Es la época en que Jünger, interpretando la crisis existencial de una generación que ha pretendido disolver todos sus vínculos con el mundo moribundo, toma conciencia de sí con un poder vital que no quiere tener nada que deber al exterior, que se exige como destino: ”nosotros no queremos lo útil, práctico y agradable sino lo que es necesario y que el destino nos obliga a desear”. Participa entonces en las violentas jornadas de los ”cascos de acero”. Sin embargo, pese a ser un colaborador radical del suplemento Die Standart, ógano de los ”Stahlhelm”, se mantendrá siempre con una altiva distancia del poder. Llegará a compartir páginas incendiarias en la revista Arminius con el por entonces joven doctor en letras y ”bolchevique nacional” Joseph Goebels y con el extraño arquitecto de la Estonia germana, Alfred Rosenberg.
Cuando Jünger escribe en 1939 En los acantilados de mármol (que se ha interpretado como una alegoría contra el orden nacionalsocialista), han pasado los días ácratas en que ”los que volvían de las trincheras, en las que por largos años habían vivido sometidos al fuego y a la muerte, no podían volver a las escuálidas vivencias del comprar y el vender de una sociedad mercantilista” (10). Ahora una parte considerable de los excombatientes se ha sumado a una revolución triunfante, en que la victoria es demasiado tangible. Jünger decide separarse en el momento del éxito. Hay un brillo superlativo, una atmósfera de saciedad, una escalera ideológica para arribar a la prosperidad de un nuevo orden.
En el momento en que Jünger ha decidido replegarse, abandonar el signo de los tiempos, batirse a contracorriente, encuentra, una vez más, la salida frente a la organización del poder en la permanente rebeldía y en la conciencia crítica. Mas esta fuga no es una deserción: hasta el crepúsculo wagneriano sigue vistiendo el uniforme alemán. Su revuelta se manifiesta en la creencia en las ”situaciones privilegiadas”, es decir, en los instantes en que la vida entera cobra sentido mediante un acto definitivo. Resuelve así, en la rápida decisión que impone la guerra, retornar a una selva negra personal con la desnudez irrenunciable de sus cicatrices, aislado del establecimiento y de la estructura del poder.
El color rojo, emblema del ”condottiero”, baño de fuego sobre la bandera de combate se ha vuelto, finalmente, equívoco: ”la sustancia de la revuelta y de los incendios se transformaba con facilidad en púrpura, se exaltaba en ella” (11); Jünger, mirando las olas de la historia restallar sobre los acantilados de mármol, asistiendo al naufragio de la historia alemana, desolado en el retiro de las letras, exalta en la acción la única emergencia que no se descompone, ”el juego soberbio y sangriento que deleita a los dioses”.
El tambor de hojalata
Hemos mencionado que una parte significativa del materail de sueños que forma su novela Heliópolis, se encuentra en el poderoso torrente de la aventura en que Jünger se desenvuelve desde sus años juveniles. En realidad, de sus dos grandes novelas de la última postguerra, quizá Heliópolis sea más profundamente Jüngeriana que Eumeswil en el sentido en que su universo estámás nítidamente plasmado, de que no existe el ”pathos” de una mala conciencia parasitaria, y de que, a diferencia del usufructo de la fácil politización en que la literatura se manipula como una parábola social o histórica , retine un poder metapolítico, esto es, un orbe estético que se explica a sí mismo, que se sustenta como un valor para sí.
No está de más subrayar que, independientemente de la opinión de una gran parte de la crítica sobre En los acantilados de mármol y sobre Eumeswil como un mensaje críptico antihitleriano, la primera, y como una denuncia contra el totalitarismo, la segunda, su interés real sobrepasa la circunstancia política, concediendo que ésta haya sido la intención del autor. Intencionalidad difícil de mantener en un análisis que busque la esencialidad de Jünger, por encima del escándalo y del criterio convencional.
Heliópolis reconquista la tensión narrativa, el libre empleo de una simbología anagógica, el espacio de expresión que se ha purificado de lo inmediato y de las presiones externas del quehacer literario. Ello quizá se explique por razones propiamente literarias y en este caso también históricas. Usamos la palabra ”reconquista” como aquella que designa un esfuerzo que surge de la derrota, que se elava sobre la postración, que recupera el valor existencial de la experiencia.
De alguna manera, y luego de un sordo y pertinaz silenciamiento, el universo de Jünger ha recobrado su sentido original, su autónomo impulso poético. Más allá de la tramposa equivalencia entre sus imágenes y una determinada concepción de la realidad. Si bien ha manifestado ya “que no existe ninguna fortaleza sobre la tierra en cuya piedra fundamental no esté grabada la aniquilación”, trátese de un mito, de un movimiento social o de una organización del poder. Heliópolis encarna la idea de que si los edificios se alzan sobre sus ruinas, ”también el espíritu se eleva por encima de todos los torbellinos, también por encima de la destrucción” (12).
Esta es, entonces, una de las características fundamentales de la novela: el tiempo histórico siguiendo su cauce se ha absorbido. Lo ocurrido (su propia participación en la historia alemana contemporánea) se ha filtrado entre las simas de los heleros como un agua nueva e incontaminada. Su escritura se ha librado del lastre y ha retomado un vuelo límpido, en el que narra la épica y eclipse de La ciudad del Sol, como la crónica del reino de Campanella, más distinta a la construcción intelectual de la utopía. Hallamos en Heliópolis nuevamente al Jünger de siempre, al artista independiente, que ha sepultado con el relámpago de su lenguaje, las bajas nubes sombrías del rapsoda de la eficacia militar y despiadada.
Notas y bibliografía
1.- Michael Tournier, Ernst Jünger Libreta Universitaria nº 58 UNAM, Acatlán, 1984.
2.- Nigel Jones, Una visita a Ernst Jünger, La Gaceta del FCE nº 165.
3.- Roger Caillois, La cuesta de la guerra, Tres fragmentos de la Guerra Nuestra Madre, Ed. FCE breviarios nº 277, México.
4.- Ernst Jünger, Heliópolis, Ed. Seix Barral, Barcelona.
5.- Antonio Gramsci, Los intelectuales y la organización de la cultura, Jaun pablos Edr. México.
6.- Antonio Gramsci. Obra cit.
7.- Erich Kahler, Los alemanes Ed. FCE breviarios nº 165, México.
8.- Pierre Drieu La Rochelle, Notas para comprender el siglo.
9.- Ernst Von Salomon, Los proscritos Ed. L. De Caralt, Barcelona.
10.- Carlos Caballero, Los Fascismos desconocidos, Ed. Huguin.
11.- Ernst Jünger. Obra cit.
12.- Idem.
(Texto publicado en la revista Fundamentos para una Nueva Cultura N° 11, Madrid, 1988.)
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dimanche, 14 avril 2013
La sombra del mal en Ernst Jünger y Miguel Delibes
La sombra del mal en Ernst Jünger y Miguel Delibes
por Vintila Horia
Ex: http://culturatransversal.wordpress.com/
De dónde viene esto, cómo ha ocurrido, hasta dónde puede extenderse su hechizo. Todos lo vemos o lo intuimos de alguna manera, pero no basta leer libros o asistir a películas -que lo ponen en evidencia. Habría que actuar, intervenir, pasar de la constatación a la resistencia. Y ni siquiera esto bastaría en el momento amenazador en que nos encontramos. Habría que reconocer y definir abiertamente el mal y acabar con él. Al mismo tiempo, cada uno de nosotros, y de un modo más o menos comprometido, está implicado en el mal, gozando de sus favores, para vivir y hacer vivir. Aun cuando lo reconocemos y estamos de acuerdo con los escritores que lo delatan, algo nos impide protestar, nuestro mismo beneficio cotidiano, nuestra relación con su magnificencia. «La cuestión es saber si la libertad es aún posible —escribe Jünger—, aunque fuese en un dominio restringido. No es, desde luego, la neutralidad la que la puede conseguir, y menos todavía esta horrorosa ilusión de seguridad que nos permite dictar desde las gradas el comportamiento de los luchadores en el circo.»
O sea se trata de intervenir, de arriesgarlo todo con el fin de que todo sea salvado.
Lo que nos amenaza es la técnica y lo que ella implica en los campos de la moral, la política, la estética, la convivencia, la filosofía. Y la rebeldía que hoy sacude los fundamentos de nuestro mundo tiene que ver con este mal, al que llamo el mayor porque no conozco otro mejor situado para sobrepasarlo en cuanto eficacia. Ya no nos interesa de dónde proviene y cuáles son sus raíces. Estamos muy asustados con sus efectos, y buscar sus causas nos parece un menester de lujo, digno de la paz sin fallos de otros tiempos. Sin embargo hay un momento clave, un episodio que marca el fin de una época dominada por lo natural —tradiciones, espiritualidad, relaciones amistosas con la naturaleza, dignidad de comportamiento humano, moral de caballeros, decencia, en contra de los instintos—, episodio desde el cual se produce el salto en el mal. Este momento es, según Ernst Jünger, la Primera Guerra Mundial, cuando el material, obra de la técnica, desplazó al hombre y se impuso como factor decisivo en los campos de batalla de Europa, luego del mundo, luego en todos los campos de la vida. Fue así como el hombre occidental universaliza su civilización a través de la técnica, lo que es una victoria y una derrota a la vez.
Este proceso, definido desde un punto de vista moral, ha sido proclamado como una «caída de los valores», o desvalorización de los valores supremos, entre los cuales, por supuesto, los cristianos. Nietzsche fue su primer observador y logró realizar en su propia vida y en su obra lo que Husserl llamaba una reducción o epoché. En el sentido de que, al proclamarse en un primer tiempo «el nihilista integral de Europa», logró poner entre paréntesis el nihilismo, lo dejó atrás como él mismo solía decirlo, y pasó a otra actitud o a otro estadio, superior, y que es algo opuesto, precisamente, al nihilismo. Desde el punto de vista de la psicología profunda, esta evolución podría llamarse un proceso de individuación. Pero tal proceso, o tal reducción eidética, no se realizó hasta ahora más que en el espíritu de algunas mentes privilegiadas, despertadas por los gritos de Nietzsche. Las masas viven en este momento, en pleno, la tragedia del nihilismo anunciada por el autor de La voluntad del poder. Aun los que, como los jóvenes, se rebelan contra la técnica caen en la descomposición del nihilismo, ya que lo que piden y anhelan no representa sino una etapa más avanzada aún en el camino del nihilismo o de la desvalorización de los valores supremos. Esta exacerbación de un proceso de por sí aniquilador constituye el drama más atroz de una generación anhelando una libertad vacía, introducción a la falta absoluta de libertad.
Todo esto ha sido intuido y descrito por algunos novelistas anunciadores, como lo fueron Kafka, Hermann Broch en sus Sonámbulos o en sus ensayos, Roberto Musil en su Hombre sin atributos, Rilke en su poesía o Thomas Mann. Pero fue Jünger quien lo ha plasmado de una manera completa, en cuanto pensador, en su ensayo El obrero, publicado en 1931, y en el ciclo Sobre el hombre y el tiempo, o bien en sus novelas.
En opinión de Jünger, escritor que representa, mejor que otros, el afán de hacer ver y comprender lo que sucede en el mundo y su porqué, y también de indicar un camino de redención, hay unos poderes que acentúan la obra del nihilismo, desvalorizándolo todo con el fin de poder reinar sobre una sociedad de individuos que han dejado de ser personas, como decía Maritain, y estos poderes son hoy lo político, bajo todos los matices, y la técnica. Y hay, por el otro lado, una serie de principios resistenciales, que Jünger expone en su pequeño Tratado del rebelde y también en Por encima de la línea, que indican la manera más eficaz de conservar la libertad en medio de unos tiempos revueltos, como diría Toynbee, ni primeros ni últimos en la historia de la humanidad. Tanatos y Eros son los elementos que nos ayudan en contra de las tiranías de la técnica o de lo político. «Hoy, igual que en todos los tiempos, los que no temen a la muerte son infinitamente superiores a los más grandes de los poderes temporales.» De aquí la necesidad, para estos poderes, de destruir las religiones, de infundir el miedo inmediato. Si el hombre se cura del terror, el régimen está perdido. Y hay regiones en la tierra, escribe Jünger, en las que «la palabra metafísica es perseguida como una herejía». Quien posee una metafísica, opuesta al positivismo, al llamado realismo de los poderes constituidos, quien logra no temer a la muerte, basado en una metafísica, no teme al régimen, es un enemigo invencible, sean estos poderes de tipo político o económico, partidos o sinarquías.
El segundo poder salvador es Eros, ya que igual que en 1984, el amor crea un territorio anímico sobre el cual Leviatán no tiene potestad alguna. De ahí el odio y el afán destructor de la policía, en la obra de Orwell, en contra de los dos enamorados, los últimos de la tierra. Lo mismo sucede en Nosotros, de Zamiatín. Al contrario, según Jünger, el sexo, enemigo del amor, es un aliado eficaz del titanismo contemporáneo, o sea, del amor supremo y resulta tan útil a éste como los derramamientos de sangre. Por el simple motivo de que los instintos no constituyen oposición al mal, sino en cuanto nos llevan a un más allá, en este caso el del amor, única vía hacia la libertad.
El drama queda explícito en la novela Las abejas de cristal. En este libro aparecen los principios expuestos por Jünger en El obrero, comentados por Heidegger, en Sobre la cuestión del Ser. El personaje principal de Jünger es un antiguo oficial de caballería, Ricardo, humillado por la caída de los valores, es decir, por el tránsito registrado por la Historia, desde los tiempos del caballo a los del tanque, desde la guerra aceptable o humana a la guerra de materiales, la guerra técnica, fase última y violenta del mundo oprimido por el mal supremo. El capitán Ricardo evoca los tiempos en que los seres humanos vivían aun los tiempos caballerescos que habían precedido a la técnica y habla de ellos como de algo definitivamente perdido. Es un hombre que ha tenido que seguir, dolorosamente, conscientemente incluso, el itinerario de la caída. Se ha pasado a los tanques no por pasión, sino por necesidad, y ha traicionado unos principios, y seguirá traicionándolos hasta el fin. Porque no tiene fuerzas para rebelarse. Su mujer lo espera en casa y todo el libro se desarrolla en tomo a un encuentro entre el ex capitán sin trabajo y el magnate Zapparoni, amo de una inmensa industria moderna, creadora de sueños y de juguetes capaces de hundir más y más al hombre en el reino de Leviatán. Símbolo perfecto de lo que sucede alrededor nuestro. Zapparoni encargara a Ricardo una sección de sus industrias, y este aceptará, después de una larga discusión, verdadera guerra fría entre el representante de los tiempos humanos y el de la nueva era, la del amo absoluto y de los esclavos deshumanizados. Zapparoni sabía lo que se traía entre manos. «Quería contar con hombres-vapor, de la misma manera en que había contado con caballos-vapor. Quería unidades iguales entre sí, a las que poder subdividir. Para llegar a ello había que suprimir al hombre, como antes el caballo había sido suprimido». Las mismas abejas de cristal, juguetes perfectos que Zapparoni había ideado y construido y que vuelan en el jardín donde se desarrolla la conversación central de la novela, son más eficaces que las naturales. Logran recoger cien veces más miel que las demás, pero dejan las flores sin vida, las destruyen para siempre, imágenes de un mundo técnico, asesino de la naturaleza y, por ende, del ser humano.
Hay, sí, un tono optimista al final del libro. La mujer de Ricardo se llama Teresa, símbolo ella también, como todo en la literatura de Jünger, de algo que trasciende este drama, de algo metafísico y poderoso en sí, capaz de enfrentarse con Zapparoni. Teresa representa el amor, aquella zona sobre la que los poderes temporales no tienen posibilidad de alcance. Es allí donde, probablemente, Ricardo y lo que él representa encontrará cobijo y salvación. Porque, como decía Hólderlin en un poema escrito a principios del siglo pasado, “Allí donde está el peligro, está también la salvación”.
En cambio, no veo luz de esperanza en Parábola del náufrago, de Miguel Delibes, novela de tema inédito en la obra del escritor castellano, una de las más significativas de la novelística española actual. El mal lo ha copado todo y su albedrío es sin límites. Lo humano puede regresar a lo animal, sea bajo el influjo moral de la técnica y de sus amos, sea con la ayuda de los métodos creados a propósito para realizar el regreso. Quien da señales de vida humana, o sea, de personalidad, quien quiere saber el fin o el destino de la empresa —símbolo ésta de la mentalidad técnica que está envolviendo el mundo— esta condenado al aislamiento y esto quiere decir reintegración en el orden natural o antinatural. Uno de los empleados de don Abdón, el amo supremo de la ciudad —una ciudad castellana que tiene aquí valor de alegoría universal—, ha sido condenado a vivir desnudo, atado delante de una casita de perro y, en poco tiempo, ha regresado a la zoología. Incluso acaba como un perro, matado por un hortelano que le dispara un tiro, cuando el ex empleado de don Abdón persigue a una perra y están escañando el sembrado. Y cuando Jacinto San José trata de averiguar lo que pasa en la institución en que trabaja y donde suma cantidades infinitas de números y no sabe lo que representan, el encargado principal le dice: «Ustedes no suman dólares, ni francos suizos, ni kilovatios-hora, ni negros, ni señoritas en camisón (trata de blancas), sino SUMANDOS. Creo que la cosa está clara.» Y, como esto de saber lo que están sumando sería una ofensa para el amo, el encargado «… le amenaza con el puño y brama como un energúmeno: «¿Pretende usted insinuar, Jacinto San José, que don Abdón no es el padre más madre de todos los padres?» Y, puesto que Jacinto se marea al sumar SUMANDOS, lo llevan a un sitio solitario, en la sierra, para descansar y recuperarse. Le enseñan, incluso, a sembrar y cultivar una planta y lo dejan solo entre peñascales en medio del aire puro.
Sólo con el tiempo, cuando las plantas por él sembradas alrededor de la cabaña, crecen de manera insólita y se transforman en una valla infranqueable, Jacinto se da cuenta de que aquello había sido una trampa. Igual que las abejas de cristal de Jünger, un fragmento de la naturaleza, un trozo sano y útil, ha sido desviado por el mal supremo y encauzado hacia la muerte. Las abejas artificiales sacaban mucha miel, pero mataban a las plantas, la planta de Delibes, instrumento de muerte imaginado por don Abdón, es una guillotina o una silla eléctrica, algo que mata a los empleados demasiado curiosos e independientes. Cuando se da cuenta de que el seto ha crecido y lo ha cercado como una muralla china, ya no hay nada que hacer. Jacinto se empeña en encontrar una salida, emplea el fuego, la violencia, su inteligencia de ser humano razonador e inventivo, su lucha toma el aspecto de una desesperada epopeya, es como un naufrago encerrado en el fondo de un buque destrozado y hundido, que pasa sus últimas horas luchando inútilmente, para salvarse y volver a la superficie. Pero no hay salvación. Más que una. La permitida por don Abdón. El híbrido americano lo ha invadido todo, ha penetrado en la cabaña, sus ramas han atado a Jacinto y le impiden moverse, como si fuesen unos tentáculos que siguen creciendo e invadiendo el mundo. El prisionero empieza a comer los tallos, tiernos de la trepadora. No se mueve, pero ha dejado de sufrir. Come y duerme. Ya no se llama Jacinto, sino jacinto, con minúscula, y cuando aparecen los empleados de don Abdón y lo sacan de entre las ramas, lo liberan, lo pinchan para despertarlo, «jacintosanjosé» es un carnero de simiente.
“Los doctores le abren las piernas ahora y le tocan en sus partes, pero Jacinto no siente el menor pudor, se deja hacer y el doctor de más edad se vuelve hacia Darío Esteban, con una mueca admirativa y le dice:
-¡Caramba! Es un espléndido semental para ovejas de vientre -dice. Luego propina a Jacinto una palmada amistosa en el trasero y añade-: ¡Listo! »
Así termina la aventura del náufrago, o la parábola, como la titula Delibes. Fábula de clara moraleja, integrada en la misma línea pesimista de la literatura de Jünger y de otros escritores utópicos de nuestro siglo. En el fondo Parábola del náufrago es una utopía, igual que Las abejas de cristal, o La rebelión en la granja, de Orwell; Un mundo feliz o 1984. Encontramos la utopía entre los mayores éxitos literarios de nuestro siglo, porque nunca hemos tenido, como hoy, la necesidad de reconocer nuestra situación en un mito universal de fácil entendimiento. La utopía es una síntesis contada para niños mayores y asustados por sus propias obras, aprendices de brujo que no saben parar el proceso de la descomposición, pero quieren comprenderlo hasta en sus últimos detalles filosóficos. Con temor y con placer, aterrorizados y autoaplacándose, los hombres del siglo XX viven como jacinto, aplastados, atados a sus obras que les invaden y sujetan, los devuelven a la zoología, pero ellos saben encontrar en ello un extraño placer. El mal supremo es como el híbrido americano de Delibes, que invade la tierra, la occidentaliza y la universaliza en el mal. Quien quiere saber el porqué de la decadencia y no se limita a sumar SUMANDOS arriesga su vida, de una manera o de otra, está condenado a la animalidad del campo de concentración, a la locura contraida entre los locos de un manicomio, donde se le recluye con el fin de que la condenación tenga algo de sutileza psicológica, pero el fin es el mismo Campo o manicomio, el condenado acabará convirtiéndose en lo que le rodea, a sumergirse en el ambiente, como Jacinto. Y de esta suerte quedará eliminado. O bien no logrará encontrar trabajo y se morirá al margen de la sociedad. O bien como el capitán Ricardo, aceptará un empleo poco caballeresco y perfeccionará su rebeldía en secreto, al amparo de un gran amor anticonformista, sobre el cual podrá levantarse el mundo de mañana, conservado puro por encima del mal. El rebelde, que lleva consigo la llave de este futuro de libertad, es el que se ha curado del miedo a la muerte y encuentra en «Teresa» la posibilidad metafísica de amar, o sea, de situarse por encima de los instintos zoológicos de la masa, que son el miedo a la muerte y la confusión aniquiladora entre amor y sexo. Es así como el hombre del porvenir vuelve a las raíces de su origen metafísico.
«Desde que unas porciones de nosotros mismos como la voz o el aspecto físico pueden entrar en unos aparatos y salirse de ellos, nosotros gozamos de algunas de las ventajas de la esclavitud antigua, sin los inconvenientes de aquella», escribe Jünger en Las abejas de cristal. Todo el problema del mal supremo está encerrado en estas palabras. Somos, cada vez más, esclavos felices, desprovistos de libertad, pero cubiertos de comodidades. Basta mover los labios y los tiernos tallos de la trepadora están al alcance de nuestro hambre. Sin embargo, al final de este festín está el espectro de la oveja o del perro de Delibes. La técnica y sus amos tienden a metamorfosearnos en vidas sencillas, no individualizadas, con el fin de mejor manejarnos y de hacernos consumir en cantidades cada vez más enormes los productos de sus máquinas. Creo que nadie ha escrito hasta ahora la novela de la publicidad, pero espero que alguien lo haga un día, basado en el peligro que la misma representa para el género humano, y utilizando la nueva técnica del lenguaje revelador de todos los misterios y de las fuerzas que una palabra representa. Una novela semiológica y epistemológica a la vez, capaz de revelar la otra cara del mal supremo: la conversión del ser humano a la instrumentalidad del consumo, su naufragio y esclavitud por las palabras.
Sería, creo, esclarecedor desde muchos puntos de vista establecer lazos de comparación entre Parábola del náufrago y Rayuela, de Julio Cortázar, en la que el hombre se hunde en la nada por no haber sabido transformar su amor en algo metafísico o por haberlo hecho demasiado tarde y haber aceptado, en un París y luego en un Buenos Aires enfocados como máquinas quemadoras de desperdicios humanos, una línea de vida y convivencia instintual, doblegada por las leyes diría publicitarias de un existencialismo mal entendido, laicizado o sartrianizado, que todo lo lleva hacia la muerte. La tragedia de la vida de hoy, situada entre el deseo de rebelarse y la comodidad de dejarse caer en las trampas de don Abdón y de Zapparoni, trampas técnicas, confortables, o bien literarias, políticas y filosóficas, inconfortables pero multicolores y tentadoras, es una tragedia sin solución y la humanidad la vivirá hasta el fondo, hasta alcanzar la orilla de la destrucción definitiva, donde la espera quizá algún mito engendrador de salvaciones.
Extraído de: Centro Studi La Runa
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mercredi, 10 avril 2013
Jünger und Frankreich - eine gefährliche Begegnung?
Jünger und Frankreich - eine gefährliche Begegnung?
Ein Pariser Gespräch. Mit 60 Briefen von Ernst Jünger an Julien Hervier
Ein Pariser Gespräch. Mit 60 Briefen von Ernst Jünger an Julien Hervier
Mit Abbildungen
204 Seiten, gebunden mit Schutzumschlag
2 Abbildungen
Aus dem Französischen von Dorothée Pschera
Preis: 19,90 € / 28,90 CHF
Der Briefwechsel Ernst Jüngers mit seinem französischen Übersetzer Julien Hervier
Pressestimmen
»Es ist eher unwahrscheinlich, dass ein neuer Briefwechsel das Bild Jüngers komplett ändert. Wohl aber vermag ein kleiner, schöner Briefband wie der von Matthes & Seitz das Bild durch persönliche und kenntnisreiche Kommentare zu verlebendigen.«
Jerker Spits, literaturkritik.de, Okotber 2012
»Der Verlag Matthes & Seitz kann sich damit rühmen, durch das Gespräch zwischen Pschera und Hervier eine Menge Hintergründiges über Jünger zutage befördert zu haben.«
Markus L. Kerber, Europolis, Juli 2012
"Alles in allem stellt das Bändchen ein Lesevergnügen dar und kann so als faszinierendes Einführungsbuch zu Jünger dienen."
Till Kinzel, Informationsmittel, Juni 2012
"Derartige, über fünfundzwanzig Jahre geführte Korrespondenzen zwischen Autor und Übersetzer sind ebenso selten wie kostbar."
Bernhard Gajek, Germanistik 53, 2012
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vendredi, 29 mars 2013
Jünger und Frankreich
Jünger und Frankreich – eine gefährliche Begegnung?
Kloster Heiligkreuztal
Am Münster 7
88499 Altheim-Heiligkreuztal
Alexander Pschera: Jünger und Frankreich - eine gefährliche Begegnung?
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samedi, 23 février 2013
Die Brüder Jünger
Die Brüder Jünger
von Till Röcke
Ex: http://www.blauenarzisse.de/
Es gilt, zwei gelungene Arbeiten über Friedrich Georg und Ernst Jünger in aller Kurzweil anzupreisen: zum einen „Brüder unterm Sternenzelt“ und andererseits „Schwert und Mohn“.
Jörg Magenau behandelt die Brüder Ernst und Friedrich Georg Jüngerin seiner Doppelbiographie Brüder unterm Sternenzelt. Was heißt behandeln? Er massiert und knetet, er herzt und tätschelt die Objekte seiner Begierde wohlmeinend und mit ganz viel Empathie in seinem ästhetischen Hinterstübchen. Magenau liefert beste Feuilleton-Kunst, die Jüngers wirken durch seiner Schreibe Suggestionskraft plüschig wie nie. Mehr Mensch hat noch keiner aus beiden herausgedrückt. Vielleicht warFritz J. Raddatz Ghostwriter?
Nimm Zwei: Die Jüngers als Bonbon
Dennoch: Man muss die Nacherzählung Magenaus einfach mögen, muss schätzen, wie er liebevoll beider Lebensläufe in eins zwirbelt und das Knäuel anschließend in Bonbonpapier wickelt. Nimm Zwei für Ästheten. Die Jüngers waren nie schöner. Friedrich Georg – ein kauzig-altgriechischer Spinner mit visionärem Öko-Thrill. Ernst – ein ziviler Stahlhelm-Bolide mit potenter Humanisierungsgabe. Beide spannend und ganz dolle außergewöhnlich.
Kurz noch der Hinweis des Biographen, dass Friedrich mal irgendwo „Neger“ geschrieben hatte – war früher aber erlaubt und okay. Überhaupt: Früher mal. Weit weg von allem Konkreten gelingt Magenau eine große Dichterhagiographie. Wer Geschichten mag, bekommt eine nach der anderen serviert. Das ist nicht wenig. Wer von Literatur und Literaten ein wenig mehr erwartet – Zeitgeist, Zeitbild, Zeitenläufe – der sollte zu Sebastian Maaß greifen.
„Schwert und Mohn“ bohrt tiefer
Maaß ist ganz Wissenschaftler, und das tut dem Stoff gut. Mit Schwert und Mohn hat er seinen Studienband über Friedrich Georg Jüngers politische Publizistik betitelt, und souveräne Kost abgeliefert. Er führt seinen Gegenstand nicht vor – geschweige, dass er ihn plastisch schilderte – vielmehr setzt er sich sachlich mit dem Wirken Friedrich Georgs auseinander. Mit diesem nüchternen Handgriff gelingt ihm ein kompaktes Stück historischer Zustandsbeschreibung – mehr darf der Leser nicht erwarten, das gibt der Gegenstand einfach nicht her.
Dieses Verfahren schafft natürlich Distanz, die unaufhebbar bleibt. Friedrich Georgs Mittun im Ringelreigen der Zwischenkriegszeit ist dem hartgesottenen Nostalgiker zu empfehlen. Mag er damit glücklich werden, das Individuum der Kristallisation, die Gestalt 2013, wird es nicht. Warum? Man nehme nur die Schlagworte der beigefügten Texte aus jener Zeit: „Kampfbünde“, „Revolution“, „Diktatur“, „Staat“. Sogar „Persönlichkeit“ taucht auf. Begriffe mit Bezug. Weltanschauung. Politische Begriffe, an jemanden gerichtet, der kein Einzelner ist, sondern Teil eines – horribile dictu – politischen Bezugsrahmens. Das meint dann doch etwas mehr als Kindergeldanspruch und Freibetragsgrenze. Wohlan: die Gestalt 2013 ist damit doch in Anspruch genommen. Vollumfänglich. Und deshalb liest auch keiner mehr die Jüngers.
Jörg Magenau: Brüder unterm Sternenzelt. 322 Seiten, Klett Cotta 2012. 22,95 Euro.
Sebastian Maaß: Schwert und Mohn. Friedrich Georg Jünger. Eine politische Biographie. 144 Seiten, Telesma Verlag 2012. 16,80 Euro.
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lundi, 07 mai 2012
Ernst Jünger, 102 years in the heart of Europe (English subtitles)
Ernst Jünger, 102 years in the heart of Europe (Swedish comments - German answers of Jünger - English subtitles)
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samedi, 05 mai 2012
Endzeiten: Die Balkanisierung Europas und Jüngers Anarch
Endzeiten: Die Balkanisierung Europas und Jüngers Anarch
Hier & Jetzt (Ausgabe 18; Frühjahr 2012)
http://www.hier-und-jetzt-magazin.de/
Dr. Tomislav Sunic
Das Wort „Endzeiten“ erinnert an die biblischen Voraussagen über einen linearen Zeitverlauf, der in ein apokalyptisches Ende der Welt einmünden soll. Diese Idee ist typisch für den Offenbarungsmenschen, dessen Denken aus semitischen Quellen gespeist wird: „Dann sah ich einen neuen Himmel und eine neue Erde. Der erste Himmel und die erste Erde waren verschwunden, und das Meer war nicht mehr da. Ich sah, wie die Heilige Stadt, das neue Jerusalem, von Gott aus dem Himmel herabkam“ (Offb. 21,1-4).
Schicksalszeit und lineare Zeit
Heute offenbart sich dieser „semitische Geist“ im Glauben an ständigen wirtschaftlichen Fortschritt und dessen ideologischen Ablegern: Kommunismus und Liberalismus. Doch man begegnet auch im europäischen Erbe dem Begriff der Endzeiten, obgleich die europäischen Endzeiten seit immer zyklischer Natur gewesen sind. In seinem Werk beschreibt Ernst Jünger die Schicksalszeiten im Gegensatz zu heutigen technokratischen, geradlinigen und meßbaren Zeiten. Kann es für Europäer noch schlimmer werden, als es schon ist? „Das Schicksal darf geahnt, gefühlt, gefürchtet, aber es darf nicht gewußt werden. Verhielte es sich anders, so würde der Mensch das Leben eines Gefangenen führen, der die Stunde seiner Hinrichtung kennt“ (1).
Für viele Menschen in Osteuropa – und besonders für die Systemkritiker – war einst das kommunistische System das Sinnbild der Endzeiten, das nachfolgende Spätzeiten unbedingt ausschließen sollte. Der Zeitverlauf schien im Kommunismus für immer verriegelt. Nach der Katastrophe von 1945 waren viele intelligente Europäer der Ansicht, daß nicht nur das Ende einer* Welt hereingebrochen war, sondern das Ende der Welt schlechthin. Für postmoderne Europäer stellt sich nun die Frage: Wo liegen die lokalen europäischen Endzeiten und wo liegt die globale Endzeit? Vielleicht sind die europäischen Endzeiten schon lange vorbei – und vielleicht sind alle Europäer schon seit Jahrzehnten tief im genetischen Verfall begriffen. Vielleicht sind Europäer am Ende schon etwas, das diesen Namen gar nicht mehr verdient? Das Problem für Europäer liegt in der richtigen Benennung der heutigen Systemzeiten, die zwar, wenn in großem historischem Zeitraum gesehen, keine Rolle spielen, aber deren peinliche Dauer für ein Menschenalter eine Ewigkeit bedeutet. Wie sollen wir diese Zeit bewerten?
Die Zeitwahrnehmung, besonders im Ernstfall, wird am besten auf dem Balkan bemessen, einem Teil Europas, der ständig den großen tektonischen Einflüssen ausgesetzt ist. Balkanisierung ist nicht nur eine Frage geopolitischer Entortung. Balkanisierung heißt auch: eine geistesgeschichtliche Entartung, wobei sich verschiedene politische Identitäten vermischen und ständig von anderen Identitäten ersetzt werden. Jedoch, angesichts der heranrückenden Katastrophen, kann jede Balkanisierung auch ein scharfes Überlebenstalent hervorrufen. Dieses Talent kann man nur als gelassener Einzelgänger ohne irgendwelche politischen Verbindungen mit der heutigen Welt üben. Wenn nötig, sollte man, wie es seit Jahrhunderten auf dem Balkan ist üblich ist, als Bauer leben, aber im Notfall auch schnell zur Waffe greifen können.
Die zwei Seiten der Balkanisierung
Heute jedoch gibt es zwei verschiedene Seiten der Balkanisierung. Auf der einen Seite gibt es in Europa noch immer den abgenutzten Haß zwischen artverwandten Europäern. Auf der anderen Seite kann man in ganzem Europa die herankommenden Kleinkriege mit Nichteuropäern als eine Art Neubalkanisierung betrachten. Im Lichte der ständigen Völkerwanderungen aus der Dritten Welt in der Richtung Europas sind alle Europäer Balkanesen geworden oder sollten sogar Balkanesen sein: Nicht unbedingt im negativen Sinne, sondern auch im positiven Überlebenssinne. Wer inmitten der wilden Tiere lebt, muß auch selbst ein Tier werden. Wie der italienische Soziologe, Vilfredo Pareto, treffend vor einhundert Jahren prophezeit hat: „Wer zum Lamm wird, findet bald einen Wolf, der einen auffrißt.“ (2).
Balkanisierung und interethnische Kleinkriege in Europa scheinen unvermeidlich zu sein, obgleich wir noch nicht wissen, welche Gestalt diese Balkanisierung und Kleinkriege annehmen werden. Man sollte sich wieder an den merkwürdigen Charakter des Anarchs von Ernst Jünger aus seinem Roman Eumeswil* erinnern. Der Protagonist Martin Venator alias Anarch, lebt in der multikulturellen Kasbah sein Doppelleben; er ist kein Rebell, kein Dissident und hat sich auch sehr gut ins System eingefügt. Jedoch in seinem Versteck hat er neben seinen Büchern auch Waffen. Er haßt das System. Jüngers Roman kann auch als Bildungsroman für die heutigen Generationen der jungen Europäer gelten, ähnlich dem jüngsten Balkankrieg, der auch eine didaktische Rolle für viele kroatischen Kämpfer spielte.
Totalüberfremdung –Gefahr und Chance
Kulturfremde Einwanderung nach Europa verlangt deswegen von uns eine neue Definition von uns selbst. Und hier sind wir Zeuge einer großen Geschichtsironie: Unser heutiges ethnisches Bewußtsein und Kulturbewußtsein wächst im Verhältnis zu den Wellen der Ankunft nichteuropäischer Zuwanderer nach Europa. Je mehr hereinkommen, desto mehr sind wir uns unserer eigenen Herkunft bewußt. Können die heutigen europäischen Nationalisten kulturell und ethnisch eine Vorstellung von sich selbst haben, ohne sich vom Anderen abzugrenzen? Die Endzeiten setzen immer die Ausgrenzung des Andersartigen voraus. Das erinnert an die kroatische Alt-Rechte, die ihr Kroatentum fast ausschließlich auf dem Anti-Serbentum aufbaut. Gäbe es irgendeine nationale oder rassische Identität ohne die wahrgenommene oder die vorgestellte Gefahr von anderen nationalen oder rassischen Identitäten? Übrigens sind solche negativen kleinstaatlichen Identitäten, die alle Europäer schmerzvoll erleben mußten, heute überholt und nutzen den Europäern nicht mehr. Heute sollte man die Zeiten mit anderen Mitteln messen, um den neuen Feinden besser zu begegnen.
Historisch gesehen haben die entgegengesetzten Euronationalismen und Balkanismen in Mittel- und Osteuropa nie eine konvergierende Wirkung für die europäischen Völker gehabt. Sie sind schädlich gewesen und müssen deshalb abgelehnt werden. Alle bisherigen Methoden der nationalen Selbstbestimmung – wie die Zugehörigkeit zu seinem Stamm oder einem eigenen Staat auf Kosten der benachbarten europäischen Staaten und Stämme, z. B. Polen gegen Deutsche, Serben gegen Kroaten oder Iren gegen Engländer – haben sich als katastrophal erwiesen. Solche exklusiven Nationalismen legitimieren nur das neomarxistische und -liberale Experiment des Multikulturalismus. Cui bono?
Einiges darf man hier nicht übersehen: Die alten europäischen Nationalismen und Balkanismen haben alle sehr viel an europäischen Menschenleben gekostet. Was jetzt den Europäern übrigbleibt, ist nur ihre gemeinsame ethnokulturelle Identität, unabhängig davon, ob sie in Australien, Kroatien, Chile oder Bayern leben. Ironischerweise bietet heutzutage ein neubalkanisiertes Europa und Amerika gutes Terrain für ein gemeinsames biopolitisches Erwachen. Angesichts der massiven Flut nichteuropäischer Einwanderer werden sich mehr und mehr Europäer ihrer eigenen ethnokulturellen und rassischen Herkunft bewußt. Die unmittelbare Gefahr der Totalüberfremdung bietet jetzt eine Chance, das große Ganze zu sehen und die frühere Kleinstaaterei abzuschütteln. Jetzt erleben alle Europäer täglich gefährliche Berührungen mit „neueuropäischen“ Völkerschaften, die ihnen total art- und kulturfremd sind. Was heißt heute ein Deutscher, ein Franzose, ein Amerikaner zu sein, da mehr als 10 Prozent der Bundesbürger und mehr als 30 Prozent der Amerikaner nichtweißer Herkunft sind?
Kommunistischer Völkermord oder Multikultimord?
Die meisten autochthonen Europäer und weißen Amerikaner sind informiert über die gefährlichen Folgen der Neubalkanisierung, aber selten geben sie sich die Mühe, über deren Ursachen nachzudenken. Ziehen wir zuerst ein paar Parallelen zwischen kommunistischem Terror und heutigem Überfremdungsterror. In diesem Zusammenhang können die Schilderungen des mörderischen Wirkens der Kommunisten in Osteuropa und besonders auf dem Balkan nach dem Zweiten Weltkrieg als Beispiel dienen, um die heutige Lage der Totalbalkanisierung und -überfremdung in ganz Europa besser zu begreifen. Freilich, die Thematisierung der Zeitgeschichte in Europa bzw. im heutigen Kroatien ist, ähnlich wie in Deutschland, nicht erwünscht und bleibt deshalb oftmals sogenannten „Rechtsradikalen“, „Revanchisten“ und „Revisionisten“ vorbehalten. Deswegen besteht auch für einen gelassenen kroatischen oder deutschen Anarch die Gefahr, daß er jedesmal, wenn er einen kausalen Nexus zwischen den kommunistischen Völkermorden vor und nach 1945 in Osteuropa und dem heutigen Überfremdungsmord herstellt, als „Rechtsextremist“ gebrandmarkt wird. Der Einzelne und sein Doppelgänger Anarch müssen daher ein gutes Einfühlungsvermögen in die Seele des Andersartigen haben und immer vorausdenken.
Im Zuge des Terrors, den die Kommunisten nach dem Zweiten Weltkrieg von Kärnten bis Mazedonien durchführten, spielten ideologische Gründe, also der berühmte „Klassenkampf“, eine mindere Rolle. Viel bestimmender war ein pathologischer Neid der Kommunisten und ihre Erkenntnis, daß ihre antikommunistischen und nationalistischen Feinde, insbesondere kroatische, slowenische und volksdeutsche Intellektuelle, intelligenter waren und eine höhere moralische Integrität besaßen. Solch eine Partisanengesinnung bzw. solche philo- und paläokommunistischen Gedankengänge sind typisch für die heutigen außereuropäischen Zuwanderer, wenngleich sie noch nicht im Stande, sind ihren Neid und ihren Haß gegen die Autochthonen in einen direkten Konflikt umzuwandeln. Die kommunistischen Völkermorde nach dem Zweiten Weltkrieg hatten Einfluß auf den Rückgang der kulturellen und genetischen Fortentwicklung in Kroatien und anderswo in Osteuropa. Die kroatische Mittelschicht und eine große Anzahl intelligenter Menschen wurden einfach ausgelöscht und konnten nicht ihr Erbe, ihre Intelligenz und ihre Schaffenskraft an ihre Nachkommen weitergeben.
Balkanisierung und Multi-Kulti als kommunistische Ersatzideologie
Wo also liegen die Parallelen zum neuen Überfremdungsterror in Westeuropa? Man muß feststellen: Das, was die früheren Kommunisten mit ihrem Terror in Mittel- und Osteuropa nicht vollenden konnten, erreicht die heutige liberale „Superklasse“ mit ihrer sanften Ersatzideologie des Multikulturalismus. Der ständige Zuzug von Nichteuropäern führt zum Niedergang des europäischen Genpools. So sieht man deutlich die krassen Auswirkungen der Gleichheitsideologie und ihres größten Vollstreckers, des Kommunismus, der einst lehrte, daß alle Menschen gleich seien. Im Liberalismus wird das Mordinstrument zwar anders benutzt, die Folgen sind aber denen im Kommunismus gleich. Das liberale System glaubt, daß alle europäischen Völker in einem neokommunistischen bzw. liberal-multikulturellen Suprastaat von nichteuropäischen Stämmen stets ersetzt werden können und wie Verbrauchsmaterial ständig reproduziert werden sollten. Balkanisierung und Multikulturalismus funktionieren heute als Ersatzideologie für den verbrauchten und diskreditierten Kommunismus. Beide Systeme sind bei den Zuwanderern aus der Dritten Welt beliebt, aber auch bei den weißen Linksintellektuellen des Westens, die immer auf der Suche nach neuer Politromantik sind. Der Kommunismus ging in Osteuropa zugrunde, weil er sich als Neomarxismus in der Praxis viel besser in Westeuropa verwirklicht hat.
Die Schuld an der Balkanisierung Europas und Amerikas tragen die Kapitalisten. Es liegt in ihrem Interesse, eine billige millionenstarke Reservearmee zur Arbeit nach Deutschland und Westeuropa zu holen, so daß sie immer wieder die Löhne der einheimischen Arbeitnehmer herabsenken können. (3) Diese importierten und zugewanderten Arbeitskräfte in Europa haben niedrige Intelligenz, wenig Sozialbewußtsein und gar kein Gespür für die europäische Kultur. Deswegen sind sie besser manipulierbar. Und deswegen sollte man die weiße kapitalistische „Superklasse“ als Hauptfeind betrachten. Der Händler hat keine Identität. Einem deutschen Börsenmakler oder einem kroatischen Ex-Kommunisten und heutigen Spekulanten ist es völlig egal, wo seine Heimat liegt – so lange er Geld verdient. Schon der Urvater des Kapitalismus, der berüchtigte, jedoch hochgepriesene Adam Smith, schrieb: „Der Kaufmann ist nicht unbedingt der Bürger irgendwelchen Landes.“ (4)
Der Fehler der Nationalgesinnten in Europa und den USA ist die Verwechselung von Ursachen und Wirkung des Multikultisystems: Nicht die vorderasiatischen oder afrikanischen Einwanderer tragen Schuld an der drohenden Balkanisierung Europas, sondern die Systempolitiker und ihre sogenannte kapitalistische „Superklasse“. Hinzu kommt auch die weit verbreite Meinung, daß der Islam mit seiner angeblich gefährlichen und gewalttätigen Religion der Hauptfeind ist. Man sollte hier aber zwischen Religion und ethnischer Herkunft differenzieren. Zudem sollte man sich auch daran erinnern, daß das jüdische Alte Testament nicht gerade friedensstiftende Prosa ist. Und auch wenn man das Evangelium liest, sollte man sich an den Terror des Dreißigjährigen Krieges erinnern, der unter dem Zeichen der christlichen Konfessionen geführt wurde. Aber auch sonst ist Religionskritik nicht geeignet, um Masseneinwanderung zu kritisieren. Die meisten der 30 Millionen illegalen Einwanderer in Amerika sind fromme Katholiken aus Lateinamerika, die päpstlicher sind als der Papst, obgleich sie den Europäern nicht artverwandt sind und einer anderen Rasse und einem anderen Kulturkreis angehören.
Das Kapital will Balkanisierung, da das Kapital keine Heimat kennt. Es kennt nur die Mobilität der Arbeitskräfte über nationale Grenzen hinweg. Deshalb soll der neue Anarch nicht schockiert sein über die stillschweigende und heilige Allianz zwischen dem Kommissar und dem Händler, zwischen dem Big* Business* und der Linkschickeria. Die Linke spricht sich für die Masseneinwanderung aus, da die Einwanderer für sie heute das Ersatzproletariat bedeuten. Für den Kapitalisten ist es vorteilhaft, Menschen aus der Dritten Welt nach Europa zu holen, weil diese den Interessen des Kapitalismus dienen. Das Kapital mit seinen Schmugglern von Menschen und Gütern auf der einen und die Antifas, Päderasten, Menschenrechtsaktivisten und christlichen Aktivisten auf der anderen Seite: das sind heute die echten Wortführer für die Abschaffung der Grenzen und die Lautsprecher für ein multirassisches, multikulturelles und wurzelloses Europa. Der Kapitalist zielt auf den Abbau des Wohlfahrtsstaates, da ihm jeder Staat zu teuer ist. Ein linker Antifa will den Nationalstaat ebenso abschaffen, da für ihn jeder Staat nach Faschismus riecht. Trotz des offiziellen Zusammenbruchs des Kommunismus sind die kommunistischen Ideen der Gleichmacherei und der Glaube an den Fortschritt mehr als je lebendig im heutigen liberal-multikulturellen Europa, wenn auch in anderer Form und unter anderen Namen – und dies sogar unter vielen Menschen, die sich selbst als Antikommunisten deklarieren.
Identität in den Spätzeiten
Wie soll unsere neue Identität heißen? Der neueuropäische Anarch muß sich bemühen seine Kultur und sein Rassebewußtsein zu erhalten. Der Rassebegriff kann nicht geleugnet werden, auch wenn dieser Begriff heute kriminalisiert wird. Man kann seine Religion, seine Gewohnheiten, seine politischen Ansichten, sein Territorium, seine Nationalität, und auch seinen Paß wechseln, aber man kann seinen Erbanlagen nunmal nicht entfliehen. Die Soziobiologie wird in den politischen Analysen der liberalen Medien mit Spott und Ekel bedacht, wenngleich der Anarch wissen sollte, insbesondere wenn der Ausnahmezustand ausgerufen wird, daß er zuerst zu seinem eigenen Stamm und zu seiner Sippe zu halten hat. Sollte er es vergessen, wird der „Andersartige“ nicht zögern, ihn schnell an seine Sippe oder an seine Rasse zu erinnern. Der jüngste Krieg in Jugoslawien war ein klares Vorzeichen dessen, wie man seine „neue Identität“ erwirbt bzw. wie man ein Zufalls- oder „Berufs“-Kroate wird. (5)
Jedoch Rassebewußtsein allein genügt in den Endzeiten nicht als Hilfsmittel für vollkommene Identität. Rasse muß immer in größerer, in geistiger Weise verinnerlicht werden. Rasse ist nicht nur ein biologisches Gegebenes – Rasse heißt auch geistige Verantwortung. Es gibt viele, viele Weiße in Europa und Amerika, die geistig total degeneriert sind – trotz eines gutaussehenden „nordischen“ Körpers. Ein solcher Körper ist jedoch keinesfalls Garant für einen ebensolchen Charakter. Schon Ludwig Clauß schrieb: „Seelenkundlich eine Rasse erforschen, bedeutet zunächst: den Sinn ihrer leiblichen Gestalt erkennen. Dieser Sinn aber ist nur aus der seelischen Gestalt verstehbar.“ (6)
Um europäische Identität wiederherzustellen, muß der heutige Anarch zunächst den Kapitalismus demontieren. Zweitens muß er auch die Gleichheitslehre des Christentums kritisch überprüfen. Nichteuropäische Einwanderer wissen genau, daß sie nur im christlich geprägten Europa mit seiner Spätreligion der Menschrechte und seinem Nationalmasochismus gut und sorglos leben können. Gefühle des Selbsthasses gibt es weder bei ihnen noch den Politikern in ihren Heimatländern. Jene Weiße, jene Waldgänger, die in den Ländern der Dritten Welt gelebt haben, wissen sehr gut, was rassische Ausgrenzung und Diskriminierungen gegen die eigene Bevölkerung in den Ländern der Dritten Welt bedeutet. Ein Mestize aus Mexiko oder ein Osttürke aus Ankara weiß genau, welchem rassischen und kulturellen Kreis er in seiner Heimat gehört. Er hat nichts zu suchen bei den „Türken“ aus der Oberschicht, die ihn ständig ausgrenzen und die auf ihre eigene albanische oder ihre bosnische Herkunft sehr stolz sind und sich dazu in der Öffentlichkeit bekennen. Im Gegensatz dazu bieten Deutschland bzw. Amerika diesen Mischlingen aus der Dritten Welt die Möglichkeiten an, die ihnen aufgrund ihrer Herkunft in ihrer Heimat für immer versperrt bleiben.
Das Großkapital der weißen Oligarchie in Europa, gepaart mit Schuldgefühlen der Spätchristen auf der einen Seite und linken Befürwortern der Rassenpromiskuität auf der anderen Seite, sorgen für die volle Legitimität der Abermillionen nichteuropäischer Zuwanderer. Wenn die Europäer wieder eine eigene Identität aufbauen wollen, sollten sie zuerst den Kapitalismus und die Freimarkttheologie demythologisieren. Auslandsimmigration kommt dann sofort zum Stillstand! Denn Einwanderer haben dann kein Motiv mehr, in den Ländern der Andersartigen zu leben und daran große Erwartungen zu knüpfen.
Optimistisch betrachtet, ist der Liberalismus am Ende. Sein Experiment mit den abstrakten Dogmen des Multikulturalismus, seinem wirtschaftlichem Fortschritt und seiner ethnisch undefinierten Bevölkerung ist gescheitert. Sowohl in Europa als auch in den USA zeigt sich täglich, daß das liberale Experiment tot ist. Es gibt dafür genügend empirische Beweise. Nun ist es ein typisches Merkmal von dahinsiechenden politischen Klassen, in weihevollen Worten über ihre Unfehlbarkeit, über ihre Ewigkeit, über die Wahrhaftigkeit ihres Systems zu dozieren – gerade in dem Moment, wenn ihr System auseinanderfällt. Solch selbstgefälliges Wunschdenken hat man unzählige Male in der Geschichte erlebt. Die fingierten Selbstvorstellungen der heutigen herrschenden Klassen über die Endzeiten und das „Ende der Geschichte“ ähneln der Denkweise der politischen Klasse in der ehemaligen DDR und der Sowjetunion kurz vor ihrem Zusammenbruch. In Sommer 1989 noch gab es große Paraden in der DDR, wobei die dortigen Politiker von der Unzerstörbarkeit des Kommunismus schwärmten. Wenige Monat später fiel die Mauer – und das System war tot. Und somit kam auch das Ende einer Welt und das Ende einer Runde europäischer Schicksaalzeiten. Die heute herrschende Klasse in Deutschland und der EU weiß gar nicht, wohin sie will und was sie mit sich selbst tun soll. Sie ist viel schwächer, als sie es zeigen will. Der Anarch lebt wieder in einer höchst spannenden historischen Zeitleere, und es hängt von seiner Willenskraft ab, welchen Sinn er dieser Zeitleere geben wird.
Netzseite: www.tomsunic.info
Fußnoten :
1. Ernst Jünger, An der Zeitmauer, (Cotta- Klett Verlag, 1959), Seite 25.
2. Vilfredo Pareto, "Dangers of Socialism", The Other Pareto (St. Martin's, 1980), Seite 125.
3. Alain de Benoist, « L'immigration, armée de réserve du capital », Eléments, Nr. 138 (April- Juni 2011).
4 Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 2 Vol. (Edinburgh, Printed, at the Univ. Press, for T. Nelson, 1827) p. 172.
http://www.econlib.org/library/Smith/smWN11.html
5. Tomislav Sunic, La Croatie, un pays par défaut? (Avatar, 2010).
6. Ludwig Clauß, Rasse und Charakter, (Verlag Moritz Diesterweg, Frankfurt a. M. 1942), Seite 43.
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mardi, 24 avril 2012
Mesianismo tecnológico. Ilusiones y desencanto.
Mesianismo tecnológico. Ilusiones y desencanto. |
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Por Horacio Cagni* Ex: http://disenso.org Las contradicciones del progreso, y particularmente la tremenda experiencia de las guerras del S. XX, pusieron sobre el tapete los alcances de la ciencia y la técnica, obligando a pensadores de todo origen y procedencia a interrogarse angustiosamente sobre el destino de nuestra civilización. Al analizar aspectos emblemáticos como los gulags soviéticos, el genocidio armenio por los otomanos, o el Holocausto –el exterminio de judíos por el nazismo en la Segunda Guerra Mundial– así como las consecuencias del eufemísticamente llamado bombardeo estratégico angloamericano –que, tanto en dicho conflicto como en otros posteriores, era simple terrorismo aéreo–, se puede concluir que estas masacres en serie son consecuencia de la planificación y organización propias de las industrias de gran escala. La muerte industrial, la objetivación de un grupo social o de un colectivo a destruir, resulta obvio para los estudiosos del Holocausto y del aniquilamiento racial, como para aquellos que se dedicaron a la revisión del aniquilamiento social que realizaron los comunistas con burgueses, reaccionarios o “desviacionistas”. En dichos casos, la presencia del confinamiento en campos de concentración y de exterminio, los lager y los gulags , resultan imágenes por demás familiares. Menos asiduas son aquellas que corresponden a la destrucción de ciudades y la muerte masiva de población civil, aduciendo tácticas y estrategias de ataque de industrias y centros neurálgicos económicos, administrativos y políticos del enemigo. Si bien nadie duda de la indefensión de los concentrados en los campos de exterminio, sean armenios, judíos o kulacs , resulta cada vez más difícil sostener que las poblaciones de Alemania, Japón, Vietnam, Serbia, Afganistán o Irak sean considerados objetivos militares válidos. En todos los casos, la distancia que la tecnología pone entre victimarios y víctima asegura la despersonalización de esta última, convertida en simple material a exterminar; los que están hacinados esperando el fin en un campo de concentración ante el administrador de su muerte, como los trasegados civiles que están bajo la mira del bombardero, no son más que simples números sin rostro. La responsabilidad del genocidio se diluye en la inmensa estructura tecnoburocrática, lo que Hanna Arendt llamaba “la banalidad del mal”. Es útil recordar que, a lo largo de todo el siglo pasado, numerosas voces se alzaron, lúcidamente, para denunciar los límites de la técnica y los peligros del mesianismo tecnológico. La técnica, clave de la modernidad, se constituyó en una religión del progreso, y la máquina resultó igualmente venerada y ensalzada por liberales, comunistas, nazifascistas, reaccionarios y progresistas. Guerra y técnica. La crítica de Ernst Jünger Escritor, naturalista, soldado, muerto más que centenario poco antes del 2000, Ernst Jünger ha sido el testigo lúcido y el crítico agudo de una de las épocas más intensas y cataclísmicas de la historia, de ese siglo tan breve, que Eric Hobsbawm sitúa entre el fin de la belle époque en 1914, y la caída del Muro de Berlín y de la utopía comunista, en 1991. Nunca se insistirá lo suficiente que, para entender a Jünger y las corrientes espirituales de su tiempo, que también es el nuestro, la clave, una vez más, es la Gran Guerra. El primer conflicto mundial fue la gran partera de las revoluciones de este siglo, no sólo en el plano ideológico y político sino en el de las ideas, la ciencia y la técnica. Por primera vez todas las instancias de la vida humana se subsumían y subordinaban al aspecto bélico. Era la consecuencia lógica de la Revolución Industrial, el orgullo de Europa, pero además necesitó de la conjunción con un nuevo fenómeno sociopolítico, que George Mosse definiera con acierto “la nacionalización de las masas”. En todos los países beligerantes, pero sobre todo en Italia y Alemania, culminaba el proceso de coagulación nacional y de exaltación de la comunidad. Países que habían advenido tarde, merced a las vicisitudes históricas, al logro de una unidad interior –como los señalados–, habían encontrado finalmente esa unidad en el frente. En las trincheras se dejaba de lado los dialectos, para mandar y obedecer en la lengua nacional; en el barro y bajo el alud de fuego se vivía y se moría de forma absolutamente igualitaria. Abrumados ante tamaño desastre, esos hombres “civilizados” se encontraron con que su única arma y esperanza era la voluntad, y su único mundo los camaradas del frente. Atrás habían quedado los orgullosos ideales de la Ilustración. El juego de la vida en buenas formas y la retórica folletinesca-parisina quedaban enterrados en el lodo de Verdún y de Galizia, en las rocas del Carso y las frías aguas del Mar del Norte. La catástrofe no sólo significó el hundimiento del positivismo sino que demostró hasta qué punto había avanzado la técnica en su desmesurado desarrollo, y hasta qué grado el ser humano estaba sometido a ella. Soldados y máquinas de guerra eran una misma cosa, juntamente con sus Estados Mayores y la cadena de producción bélica. Ya no existía frente y retaguardia, pues la movilización total se había apoderado del alma del pueblo. Jünger, oficial del ejército del Káiser, llamó Mate - rialschlacht –batalla de material– a esta novedosa especie de combate. En las operaciones bélicas, todo devenía material, incluso el individuo, quien no podía escapar de la operación conjunta de hombres y máquinas que nunca llegaba a entender. Cuando se leen las obras de Jünger sobre la Gran Guerra –editadas por Tusquets–, como Tempestades de Acero o El bosquecillo 125, el relato de las acciones bélicas se vuelve monótono y abrumador, como debe haber sido la vida cotidiana en el frente, suspendida en el riesgo, que insensibiliza a fuerza de mortificación. En La guerra como experiencia interna, Jünger acepta la guerra como un hecho inevitable de la existencia, pues existe en todas las facetas del quehacer humano: la humanidad nunca hizo otra cosa que combatir. La única diferencia estriba en la presencia omnímoda y despersonalizante de la técnica, pero siempre somos más fuertes o más débiles. La literatura creada por la Gran Guerra es numerosa, y a veces magnífica. A partir de El Fuego de Henri Barbusse, que fue la primera, una serie de obras contaron el dolor y el sacrificio, como la satírica El Lodo de Flandes, de Max Deauville, Guerra y Postguerra de Ludwig Renn, Camino del Sacrificio de Fritz von Unruh, y las reconocidas Sin Novedad en el Frente, de Erich Remarque y Cuatro de Infantería, de Ernst Johannsen, que dieron lugar a sendos filmes. En todas estas obras –traducidas al español en su momento y editadas por Claridad– campea la sensación de impotencia del hombre frente a la técnica desencadenada. Pero, más allá de su excelencia literaria, todas se agotan en la crítica de la guerra y el sentido deseo de que nunca vuelva a repetirse la tragedia. Jünger fue mucho más lejos; comprendió que este conflicto había destruido las barreras burguesas que enseñaban la existencia como búsqueda del éxito material y observación de la moral social. A h o r a afloraban las fuerzas más profundas de la vida y la realidad, lo que él denominaba “elementales”, fuerzas que a través de la movilización total se convertían en parte activa de la nueva sociedad, formada por hombres duros y jóvenes, una generación abismalmente diferente de la anterior. El nuevo hombre se basaba en un “ideal nuevo”; su estilo era la totalidad y su libertad la de subsumirse, de acuerdo a la categoría de la función, en una comunidad en la cual mandar y obedecer, trabajar y combatir. El individuo se subsume y tiene sentido en un Estado total. Individuo y totalidad se conjugan sin trauma alguno merced a la técnica, y su arquetipo será el trabajador, símbolo donde el elemental vive y, a la vez, es fuerza movilizadora. Si bien el ejemplo es el obrero industrial, todos son trabajadores por encima de diferencias de clase. El tipo humano es el trabajador, sea ingeniero, capataz, obrero, ya se encuentre en la fábrica, la oficina, el café o el estadio. Opuesto al “hombre económico” –alma del capitalismo y del marxismo por igual–, surgía el “hombre heroico”, permanentemente movilizado, ya en la producción, ya en la guerra. Esta distinción entre hombre económico y hombre heroico la había esbozado tempranamente el joven Peter Drucker en su libro The end of the economic man, d e 1939, haciendo alusión al fascismo y al nacionalsocialismo, que irrumpían en la historia de la mano de “artistas de la política”, que habían vislumbrado la misión redentora y salvífica de unidad nacional en las trincheras donde habían combatido. El trabajador es “persona absoluta”, con una misión propia. Consecuencia de la era tecnomaquinista, es pertenencia e identidad con el trabajo y la comunidad orgánica a la cual pertenece y sirve, señala Jünger en su libro Der Arbeiter, uno de sus mayores ensayos, escrito en 1931. Lo más importante de esta obra es la consideración del trabajador como superación de la burguesía y del marxismo: Marx entendió parcialmente al trabajador, pues el trabajo no se somete a la economía. Si Marx creía que el trabajador debía convertirse en artista, Jünger sostiene que el artista se metamorfosea en trabajador, pues toda voluntad de poder se expresa en el trabajo, cuya figura es dicho trabajador. En cuanto al meollo del pensamiento burgués, éste reniega de toda desmesura, intentando explicar todo fenómeno de la realidad desde un punto de vista lógico y racional. Este culto racionalista desprecia lo elemental como irracional, terminando por pretender un vaciamiento de sentido de la existencia misma, erigiendo una religión del progreso, donde el objetivo es consumir, asegurándose una sociedad pacífica y sin sobresaltos. Para Jünger esto conduce al más venenoso y angustiante aburrimiento existencial, un estado espiritual de asfixia y muerte progresiva. Sólo un “corazón aventurado”, capaz de dominar la técnica asumiéndola plenamente y dándole un sentido heroico, puede tomar la vida por asalto y, de este modo, asegurar al ser humano no simplemente existir sino ser realmente . Otros críticos del tecnomaquinismo A principios de los años treinta, aparecieron en Europa, sobre todo en Alemania, una serie de escritores cuyas obras se referían a la relación del hombre con la técnica, donde la voluntad como eje de la vida resulta una constante. Así ocurre en El Hombre y la Técnica, de Oswald Spengler (Austral) –quien sigue las premisas nietzscheanas de la “voluntad de poder”–, La filosofía de la Técnica de Hans Freyer, Perfección y fracaso de la técnica de Friedrich Georg Jünger –hermano de Ernst– y los seminarios del filósofo Martín Heidegger, todos contemporáneos del mencionado El Trabajador. (El libro de su hermano Friedrich fue editado inmediatamente después de la 2° Guerra, pero había sido escrito muchos años antes y por las vicisitudes del conflicto no había podido salir a luz; existe versión castellana de Sur). Pero estos interrogantes no eran privativos del mundo germánico, pues no debemos olvidar a los futuristas italianos liderados por Filippo Marinetti, ni al Luigi Pirandello de Manivelas, a los escritos del francés Pierrre Drieu La Rochelle –como La Comédie de Charleroi– y a la película Tiempos Modernos, de Charles Chaplin. El autor de El Principito, el notable escritor y aviador francés Antoine de Saint Exupéry, también hace diversas reflexiones sobre la técnica. En su libro Piloto de Guerra (Emecé) hay una página significativa, cuando señala que, en plena batalla de Francia en 1940, en una granja solariega, un anciano árbol “bajo cuya sombra se sucedieron amores, romances y tertulias de generaciones sucesivas” obstaculiza el campo de tiro “de un teniente artillero alemán de veintiséis años”, quien termina por suprimirlo. Reacio a emplear su avión como máquina asesina, St. Ex, como le llamaban, desapareció en vuelo de reconocimiento en 1944, sin que se hayan encontrado sus restos. Su última carta decía: “si regreso ¿qué le puedo decir a los hombres?” También el destacado jurista y politólogo Carl Schmitt se planteó la cuestión de la técnica. Tempranamente, en su clásico ensayo El concepto de lo político –de múltiples ediciones–, afirma que la técnica no esuna fuerza para neutralizar conflictos sino un aspecto imprescindible de la guerra y del dominio. “La difusión de la técnica –señala– es indetenible”, y “el espíritu del tecnicismo es quizás maligno y diabólico, pero no para ser quitado de en medio como mecanicista, es la fe en el poder y el dominio ilimitado del hombre sobre la naturaleza”. La realidad, precisamente, demostraba los efectos del mesianismo tecnológico, tanto en la explotación de la naturaleza, como en el conflicto entre los hombres. En un corolario a la obra antedicha, Schmitt define como p roceso de neutralización de la cultura a esta suerte de religión del tecnicismo, capaz de creer que, gracias a la técnica, se conseguirá la neutralidad absoluta, la tan deseada paz universal. “Pero la técnica es ciega en términos culturales, sirve por igual a la libertad y al despotismo... puede aumentar la paz o la guerra, está dispuesta a ambas cosas en igual medida”. Lo que ocurre, según Schmitt, es que la nueva situación creada por la Gran Guerra ha dejado paso a un culto de la acción viril y la voluntad absolutamente contraria al romanticismo del ochocientos, que había creado, con su apoliticismo y pasividad, un parlamentarismo deliberativo y retórico, arquetipo de una sociedad carente de formas estéticas. Es innegable la influencia de los escritos de posguerra de Jünger –la guerra forjadora de una “estética del horror”– en la enjundiosa mente de Schmitt. Pero a esa desesperada búsqueda de una comunidad de voluntad y belleza, capaz de conjurar al Golem tecnológico mediante una barbarie heroica, no escapaba prácticamente nadie en aquellos tiempos. Hoy es fácil mirar hacia atrás y señalar a tantos pensadores de calidad como “enterradores de la democracia de Weimar” y “preparadores del camino del nazismo”. Esta mirada superficial sobre un período histórico tan intenso y complejo se impuso al calor de las pasiones, apenas terminada la Segunda Guerra Mundial y, luego, más aún desde que el periodismo se apoderó progresivamente de la historia y la ciencia política. La realidad es siempre más profunda. En aquellos años de Weimar, los alemanes en su mayoría sentían la frustración de 1918 y las consecuencias de Versalles; los jóvenes buscaban con ahínco encarnar una generación distinta, edificar una sociedad nueva que reconstruyera la patria que amaban con desesperación. Fue una época de increíble florecimiento en la literatura, las artes y las ciencias, y obviamente, esto se trasladó al campo político. Por entonces, Moeller van der Bruck, Spengler y Jünger –malgrado sus diferencias– se transformaron en educadores de esa juventud, a través de escritos y conferencias. La estética völkisch, popular, que era anterior al nacionalsocialismo, teñía todos los aspectos de la vida cotidiana. La mayoría de los pensadores abjuraban del débil parlamentarismo de la República surgida de la derrota, y en el corazón del pueblo, la Constitución de Weimar estaba condenada. ¿Acaso no había sido un éxito editorial El estilo prusiano, de Moeller van der Bruck, que proponía una educación por la belleza? ¿Y Heidegger? En su alocución del solsticio de 1933 dirá: “los días declinan/nuestro ánimo crece/llama, brilla/corazones, enciéndanse” Lo interesante es que todos coincidían. El católico Schmitt, cuando en su análisis Caída del Segundo Imperio sostenía que la principal razón estribaba en la victoria del burgués sobre el soldado; neoconservadores como August Winning, que distinguía entre comunidad de trabajo y proletariado, y como Spengler con su “prusianismo socialista”; el erudito Werner Sombart y su oposición entre “héroes y mercaderes”, y, además, los denominados nacionalbolcheviques. El más conspicuo de los intelectuales nacionalbolcheviques, Ernst Niekisch, había conocido a Jünger en 1927; a partir de allí elaborará también una reflexión sobre la técnica. Su breve ensayo La técnica, devoradora de hombre s es uno de los análisis más lúcidos del mesianismo tecnológico, y una de las mayores críticas de la incapacidad del marxismo para comprender que la técnica era una cuestión que escapaba al determinismo economicista y a las diferencias de clase. También es de Niekisch uno de los mejores comentarios de El Trabajador de Jünger, obra de la cual tenía un gran concepto. Todos ellos intentaron dotar a la técnica de un rostro brutal, pero aún humano, demasiado humano, único hallazgo del mundo, como sostuvo Nietzsche. Por supuesto, todas estas energías fueron aprovechadas por los políticos, que no pensaban ni escribían tanto, pero podían franquear las barreras que los intelectuales no se atrevían a traspasar. Estos nuevos políticos poseían esa nueva filosofía: ya no procedían de cuadros ni eran profesionales de la política sino “artistas del poder”, como decía Drucker. Lenin abrió el camino, pero hombres como Mussolini y Hitler, y muchos de sus secuaces, eran arquetipos de esta nueva clase. Provenían de las trincheras del frente, eran conductores de un movimiento de jóvenes, tenían una gran ambición, despreciaban al burgués, si bien confundían sus ideas de salvación nacional con el lastre ochocentista de diversos prejuicios. El fin de una ilusión Schmitt coincidía con Jünger en su desprecio del mundo burgués. En la concepción jüngeriana, tan importante era el amigo como el enemigo: ambos son referentes de la propia existencia y le otorgan sentido. El postulado significativo de la teorética schmittiana será la específica distinción de lo político: la distinción entre amigo y enemigo. El concepto de enemigo no es aquí metafórico sino existencial y concreto, pues el único enemigo es el enemigo público, el hostis. Preocupado de la ausencia de unidad interior de su país luego de la debacle de 1918, vislumbrando en política interior el costo de la debilidad del Estado liberal burgués, y en política exterior las falencias del sistema internacional de posguerra, Schmitt, al principio, se comprometió profundamente con el nacionalsocialismo. Llegó a ser uno de los principales juristas del régimen. Creía encontrar en él la posibilidad de realización del decisionismo, la encarnación de una acción política independiente de postulados normativos. Jünger, atento a lo que denominaba “la segunda conciencia más lúcida y fría” –la posibilidad de verse a sí mismo actuando en situaciones específicas– fue más cuidadoso, y se distanció progresivamente de los nacionalsocialistas. Sin duda, su costado conservador había vislumbrado los excesos del plebeyismo nazifascista y su fuerza niveladora. También Schmitt comenzó a ver cómo elementos mediocres e indeseables se entroncaban en el régimen y adquirían cada vez más poder. Heidegger, al principio tan entusiasta, se había alejado del régimen al poco tiempo. Spengler murió en 1936, pero los había criticado desde el inicio. No obstante, había diferencias de fondo. Spengler, Schmitt y Jünger creían que un Estado fuerte necesitaba de una técnica poderosa, pues el primado de la política podía reconciliar técnica y sociedad, soldando el antagonismo creado por las lacras de la revolución industrial y tecnomaquinista. Eran antimarxistas, antiliberales y antiburgueses, pero no antitecnológicos, como sí lo era Heidegger; éste se había retirado al bosque a rumiar su reflexión sobre la técnica como obstáculo al “desocultamiento del ser”, que tan magistralmente explicitara mucho después. Otro aspecto en el cual coincidían Jünger, Schmitt, y también Niekisch, era en su consideración cómo la Rusia stalinista se alineaba con la tendencia tecnológica imperante en el mundo. Al finalizar los treinta, dos naciones aparentaban sobresalir como ejemplo de una voluntad de poder orientada y subsumida en una comunidad de trabajadores, malogrado sus principios y sistemas políticos diferentes: el III Reich y la URSS stalinista (en menor medida también la Italia fascista). Pero, obviamente, sus clases dirigentes no eran permeables a las consideraciones jüngerianas o schmittianas, pues la carcaza ideológica no podía admitir actitudes críticas. AJünger y a Schmitt les ocurrió lo mismo: no fueron considerados suficientemente nacionalsocialistas y comenzaron a ser criticados y atacados. Schmitt se refugió en la teorización –brillante, sin duda– sobre política internacional. En cuanto a Jünger, su concepción del “trabajador” fue rechazada por los marxistas, acusándola de cortina de humo para tapar la irreductible oposición entre burguesía y proletariado –es decir “fascista”– tanto como por los nazis, quienes no encontraban en ella ni rastros de problemática racial. En su exilio interior, Jünger escribió una de sus novelas más importantes. Los acantilados de mármol; constituye una reflexión profunda, enclave simbólica, sobre la concentración del poder y el mundo de sencadenado de los “elementales”. Mediante una prosa hiperbólica y metafórica, denuncia la falacia de la unión de principios guerreros e idealistas cuando falta una metafísica de base. Por supuesto que esta obra, editada en vísperas de la Segunda Guerra Mundial, fue considerada, no sin razón, una crítica del totalitarismo hitleriano, pero no se agota allí. El escritor va más lejos, pues se refiere al mundo moderno donde ninguna revolución, por más restauradora que se precise, puede evitar la caída del hombre y sus dones de tradición, sabiduría y grandeza. Jünger siempre ha sido un escéptico. En La Movilización Total hay un párrafo esclarecedor: “Sin discontinuidad, la abstracción y la crudeza se acentúan en todas las relaciones humanas. El fascismo, el comunismo, el americanismo, el sionismo, los movimientos de emancipación de pueblos de color, son todos saltos en pos del progreso, hasta ayer impensables. El progreso se desnaturaliza para proseguir su propio movimiento elemental, en una espiral hecha de una dialéctica artificial”. Contemporáneamente, Schmitt señalaba: “Bajo la inmensa sugestión de inventos y realizaciones, siempre nuevos y sorprendentes, nace una religión del progreso técnico, que resuelve todos los problemas. La religión de la fe en los milagros se convierte enseguida en religión de los milagros técnicos. Así se presenta el S. XX, como siglo no sólo de la técnica sino de la creencia religiosa en ella”. Si ambos pensadores creían en un intento de ruptura del ciclo cósmico desencadenado, rápidamente habrán perdido sus esperanzas. Los propios desafiantes del fenómeno mundial de homogeneización –cuyo motor era la técnica originada en el mundo anglosajón de la revolución industrial–, como el nacionalsocialismo y el sovietismo, mal podían llevar adelante este proceso de ruptura cuando constituían parte importante, y en muchos casos la vanguardia, del progreso tecnológico. No hay escapatoria posible para el hombre actual y el principio totalitario, frío, cínico e inevitable que Jünger vislumbró desde sus primeras obras, y que siguió desarrollando hasta su final, será la característica esencial de la sociedad mundialista. El desenlace de la Segunda Guerra Mundial, con su horror desencadenado, liquidó la posibilidad de entronización del tan mentado “hombre heroico” y consagró el “hombre económico” o “consumista” como arquetipo. Este evidente triunfo de la sociedad fukuyamiana se debió no sólo a la prodigiosa expansión de la economía sino esencialmente, al auge tecnológico y a la democratización de la técnica. Ello no implica, no obstante, que el hombre sea más libre; se cree libre en tanto participa de democracias cuatrimestrales, habitante del shopping y esclavo del televisor y de la computadora, productor y consumidor en una sociedad que ha obrado el milagro de crear el ansia de lo innecesario, la aparente calma en la que vive esconde aspectos ominosos. La tecnología ha despersonalizado totalmente al ser humano, lo cual se evidencia en la macroeconomía virtual, que esconde una espantosa explotación, desigualdad y miseria, así como en las guerras humanitarias,eufemismo que subsume la tragedia de las guerras interétnicas y seudorreligiosas, vestimenta de la desembozada explotación de los recursos naturales por parte de los poderes mundiales. Desde el FMI hasta la invasión de Irak, el “filisteo moderno del progreso” –Spengler dixit– es, bajo sus múltiples manifestaciones, genio y figura. En sus últimos tiempos, Jünger estaba harto. Su consejo para el rebelde era hurtarse a la civilización, la urbe y la técnica, refugiándose en la naturaleza. El actual silencio de los jóvenes –sostenía en La Emboscadura , mejor traducida como Tratado del Rebelde– es más significativo aún que el arte. Al derrumbe del Estado-Nación le ha seguido “la presencia de la nada a secas y sin afeites. Pero de este silencio pueden s u rgir nuevas formas”. Siempre el hombre querrá ser diferente, querrá algo distinto. Y, como la calma que precede a la tormenta, todo estado de quietud y todo silencio es engañoso. * Politólogo especializado en Relaciones Internacionales. Ensayista. |
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jeudi, 12 avril 2012
Ernst Jünger, lecteur de Maurice Barrès
Harald HARZHEIM:
Ernst Jünger, lecteur de Maurice Barrès
Nationalisme, culte du moi et extase
“Je ne suis pas national, je suis nationaliste”: cette phrase a eu un effet véritablement électrisant sur Ernst Jünger, soldat revenu du front après la fin de la première guerre mondiale qui cherchait une orientation spirituelle. Soixante-dix ans plus tard, Jünger considérait toujours que ce propos avait constitué pour lui l’étincelle initiale pour toutes ses publications ultérieures, du moins celles qui ont été marquées par l’idéologie nationale-révolutionnaire et sont parues sous la République de Weimar.
L’auteur de cette phrase, qui a indiqué au jeune Jünger la voie à suivre, était un écrivain français: Maurice Barrès. Bien des années auparavant, dans sa prime jeunesse, Ernst Jünger avait lu, en traduction allemande, un livre de Barrès: “Du sang, de la volupté et de la mort” (1894). On en retrouve des traces dans toute l’oeuvre littéraire de Jünger.
Maurice Barrès était né en 1862 en Lorraine. Tout en étudiant le droit, il avait commencé sa carrière de publiciste dès l’âge de 19 ans. A Paris, il trouva rapidement des appuis influents, dont Victor Hugo, Anatole France et Hippolyte Taine. Dans ses premiers ouvrages, Barrès critiquait l’intellectualisme et la “psychologie morbide” que recelait la littérature de l’époque. A celle-ci, il opposait Kant, Goethe et Hegel, qui devaient devenir, pour sa génération, des exemples à suivre. Après l’effondrement des certitudes et des idéologies religieuses, le propre “moi” de l’écrivain lui semblait le “dernier bastion de ses certitudes”, un bastion éminemment réel duquel on ne pouvait douter.
Il en résulta le “culte du moi”, comme l’atteste le titre général de sa première trilogie romanesque. Le “culte du moi” ne se borne pas à la seule saisie psychologique de ce “moi” mais cherche, en plus, à dépasser son isolement radical: le moi doit dès lors se sublimer dans la nation qui, au contraire du moi seul, est une permanence dans le flux du devenir et de la finitude.
Le processus de dépassement du “moi” individuel implique un culte du “paysage national”, donc, dans le cas de Barrès, de la Lorraine. Dans les forêts, les vallées et les villages de Lorraine, Barrès percevait un reflet de sa propre âme; il se sentait lié aux aïeux défunts. Le “culte du moi” est associé au “culte de la Terre et des Morts”. Ce culte du sol et des ancêtres, Barrès le considèrera désormais comme élément constitutif de sa “piété”. L’Alsace-Lorraine avait été conquise par les Allemands pendant la guerre de 1870-71. Une partie de la Lorraine avait été annexée au Reich. Barrès devint donc un germanophobe patenté et un revanchard, position qu’il n’adoucira qu’après la première guerre mondiale, après la défaite de l’ennemi. Dans un essai écrit au soir de sa vie, en 1921, et intitulé “Le génie du Rhin”, cette volonté de conciliation transparaît nettement. Ernst Jünger l’a lu dès sa parution.
Barrès posait un diagnostic sur la crise européenne qui n’épargnait pas l’esprit du temps. Il s’adressait surtout à la jeunesse, ce qui lui valu le titre de “Prince de la jeunesse”. Pourtant la radicalisation politique croissante de son “culte du moi”, sublimé en nationalisme intransigeant, effrayait bon nombre de ses adeptes potentiels. Ainsi, Barrès exigeait que le retour des Français sur eux-mêmes devait passer par l’expurgation de toutes influences étrangères. Le “moi”, lié indissolublement à la nation, devait exclure toutes les formes de “non-moi”. Cela signifiait qu’il fallait se débarrasser de tout ce qui n’était pas français et qu’il résumait sous l’étiquette de “barbare”. Il prit dès lors une posture raciste et antisémite. Son nationalisme s’est mué en un chauvisnisme virulent qui se repère surtout dans ses écrits publiés lors de l’affaire Dreyfus. Une haine viscérale s’est alors exprimée dans ses écrits. En 1902, Barrès a rassemblé en un volume (“Scènes et doctrines du nationalisme”) quelques-uns de ces essais corsés.
Barrès n’était pas seulement un homme de plume. Au début des années 80 du 19ème siècle, il avait rejoint le parti revanchiste du Général Boulanger et fut élu à la députation de Nancy.
Après la seconde guerre mondiale, Ernst Jünger comparait le Général Boulanger à Hitler (ce que bien d’autres avaient fait avant lui). Après une conversation avec le fils de Barrès, Philippe, il en arriva à la conclusion que cet engagement en faveur de Boulanger a dû le faire “rougir” (EJ, “Kirchhorster Blätter”, 7 mai 1945).
En 1894, Barrès avait écrit “Du sang, de la volupté et de la mort”, recueil d’esquisses en prose et de récits de voyage en Espagne, en Italie et en Scandinavie, pimentés de réflexions sur la solitude, l’extase, le sexe, l’art et la mort. Le corset spatial étroit du nationalisme de Barrès éclatait en fait dans cette oeuvre car il ne privilégiait plus aucun paysage, n’en érigeait plus un, particulier, pour le hisser au rang d’objet de culte: chacun des paysages décrits symbolisait des passions et des sentiments différents, qu’il fallait chercher à comprendre. En lisant ce recueil, Ernst Jünger a trouvé dans son contenu l’inspiration et le langage qu’il fallait pour décrire les visions atroces des batailles, relatées dans ses souvenirs de guerre. De Barrès, Jünger hérite la notion de “sang”, qui n’est pas interprétée dans un sens biologique, mais est hissée au rang de symbole pour la rage et la passion que peut ressentir un être. Quant aux descriptions très colorées des paysages, que l’on retrouve dans l’oeuvre de Barrès, nous en trouvons un écho, par exemple dans “Aus der goldenen Muschel” (1944) de Jünger.
Maurice Barrès est mort en 1923. Peu d’écrits de lui ont été traduits en allemand. Le dernier à l’avoir été fut son essai “Allerseelen in Lothringen” (“Toussaint en Lorraine”), paru en 1938. Après la deuxième guerre mondiale, aucun écrit de Barrès n’a été réédité, retraduit ou réimprimé. On a finit par le considérer comme l’un des pères intellectuels du fascisme. Barrès a certes été élu à l’Académie Française en 1906 mais sa réhabilitation en tant que romancier est récente, même en France, alors que Louis Aragon l’avait réclamée dès la fin de la seconde guerre mondiale.
Jünger ne s’est pas enthousiasmé longtemps pour ce nationaliste français. Dès la moitié des années 20 du 20ème siècle, il s’oriente vers d’autres intérêts littéraires. Jünger n’évoque Barrès explicitement qu’une seule fois dans ses oeuvres journalistiques et militantes, alors que le Lorrain les avait inspirées. Dans “Vom absolut Kühnen” (1926), Jünger affirme qu’il “préfère la France de Barrès à celle de Barbusse”, parce qu’il entend récuser l’idéologie pacifiste de ce dernier.
Toutes les évocations ultérieures de Barrès relèvent du rétrospectif. Jünger ne puise plus aucune inspiration nouvelle dans les écrits de Barrès. Jünger, âgé, comparait le sentiment qu’il éprouvait face à la défaite allemande de 1918 au désarroi qu’ont dû ressentir les jeunes Français en 1871 (cf. “Siebzig verweht”, IV, 23 octobre 1988). Il répète dans ce même passage que Barrès l’avait fortement influencé dans le travail de façonnage de sa propre personnalité, une imprégnation barrèsienne, dont il s’était distancié assez tôt. En 1945, Jünger notait que “lui-même et les hommes de sa propre génération étaient arrivés trop tard en beaucoup de choses, si bien que la voie, que Barrès avait encore pu emprunter, ne leur était plus accessible”. Dès le début des années 30 du 20ème siècle, Ernst Jünger en était arrivé à considérer le nationalisme barrèsien comme une construction dépassée, née au 19ème siècle et marquée par lui. Cette position l’a empêché de s’engager dans le sillage d’un politicien chauvin comme Boulanger, c’est-à-dire comme Hitler.
Dans la bibliothèque de Jünger à Wilflingen, on trouve deux ouvrages de l’écrivain français: “Amori et Dolori sacrum. La mort de Venise” et les quatorze volumes de “Mes cahiers”. Ces “cahiers”, Jünger les évoque dans une notule envoyée à Alfred Andersch: “Vous me comptez non pas parmi les conservateurs-nationaux mais parmi les nationalistes. Rétrospectivement, je suis d’accord avec vous. J’ose même dire que j’ai inventé le mot; récemment en lisant ses “Cahiers”, je me suis découvert de remarquables parallèles avec Maurice Barrès. Il y dit: ‘...je suis né nationaliste. Je ne sais pas si j’ai eu la bonne fortune d’inventer le mot, peut-être en ai-je donné la première définition’” (cf. “Siebzig verweht”, II, 7 juin 1977).
Ernst Jünger a donc lu les “Cahiers” de Barrès de manière fort occasionnelle car la plupart des quatorze volumes des “Cahiers”, dans la bibliothèque de Wilflingen, n’ont en apparence que rarement été ouverts; certains n’ont même pas été coupés. En 1971, Jünger a dit: “Barrès aussi est désormais derrière moi”. La teneur de cette assertion n’a plus été modifiée jusqu’à la mort de l’écrivain allemand.
Harald HARZHEIM.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°23/2005; trad. française: avril 2012).
http://www.jungefreiheit.de/
Harald Harzheim est écrivain, dramaturge et historien du cinéma. Il vit à Berlin. Il travaillait en 2005, au moment où il rédigeait cet article, à un essai sur la “Démonologie du cinéma” d’Ernst Jünger.
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samedi, 03 mars 2012
The Conservative Revolution Then and Now: Ernst Jünger
The Conservative Revolution Then and Now: Ernst Jünger
Will Fredericks
Ex: http://www.wermodandwermod.com/
Early in 1927 the Austrian poet Hugo von Hofmannsthal made a famous address to students at the University of Munich. He alluded to and deplored the historical separation in German society between the intellectual and political sphere, between “life” and “mind”. He deplored that German writing in the past had functioned in a vacuum and was “not truly representative nor did it establish a tradition” and was symptomatic of a crisis in civilization which had lost contact with life. In response, he referred to the “legions of seekers” throughout the country who were striving for the reestablishment of faith and tradition and whose aim was not freedom but “allegiance”. He concluded: “The process of which I am speaking is nothing less than a conservative revolution on such a scale as the history of Europe has never known.
Comparing this with the present day situation, when paleoconservative leaders like Paul Gottfried feel lucky to sell a thousand copies of a book, German conservatism was experiencing a period of unparalleled cultural, intellectual, and spiritual vitality as measured by literary engagement. Large numbers of conservative revolutionary political philosophers formed political clubs and organizations and swamped the periodical market with their pamphlets full of semi-political, semi-philosophical jargon. They found access to the “respectable” public, and became the heralds of conservative revolution. They represented an intelligentsia that had the ear of the people, in contrast to the leftist intelligentsia which was considered “Western” and “alien” by most.
Among the most prominent leaders of the “conservative revolution” were Ernst Jünger, Oswald Spengler, and Moeller van den Bruck, each of whom sold hundreds of thousands and in some cases millions of books in Germany and were eagerly followed, debated, and almost canonized. They had succeeded in overcoming the separation between the intellectual and the political. Their writings all place strong emphasis on a homogenous, culturally and spiritually unified nation and on the role of the state in establishing and protecting society. (Jünger’s Über Nationalismus und Judenfrage (On Nationalism and the Jewish Question [1930]), depicted Jews as a threat to German cultural homogeneity; see here.) For this reason they still elicit interest to at least some extent from White nationalists and traditionalists. Although they all rejected the strictly racial theories of National Socialism, this emphasis on a strong, culturally unified state has caused their doctrines and ideologies to be confused with National Socialism. This occurred not only with the left but was characteristic of prominent theorists of the Austrian school like Friedrich Hayek, who are foundational to libertarianism and mainstream conservatism.
This criticism of the conservative revolutionaries is part of the larger criticism of pre-Nazi German society which has been ongoing since the war, and has of course been dominated by the left and such writers as the Frankfurt School’s Erich Fromm and his work Escape from Freedom. According to this line, the failure of German society as reflected in the Third Reich (including the conservative revolutionaries) was that it was insufficiently liberal, that it was insufficiently oriented way from traditional authority and toward modern freedom and rationalism. There is a contrary analysis of some conservative writers like Klemens Von Klemperer (for whom I am indebted to for this piece), alien to the mainstream, that to the extent that German society was deficient, it was more because it was insufficiently conservative, that it lacked sufficient loyalties, roots, allegiances and faith. From a traditionalist point of view that is the only point of view that makes sense, standing as it does against the liberal notion that there was nothing wrong with either Weimar Germany or today’s society that a little, or perhaps a lot, of diversity training and PC conditioning won’t cure. Using this framework it is instructive to see how the conservative revolutionaries, starting with Ernst Jünger, measure up.
Ernst Jünger
Among conservative revolutionary writers Ernst Jünger occupies a unique niche, ideologically and most obviously historically, Jünger lived to the ripe old age of 102, dying in February 1998, just a few months short of the release of Baby One More Time. (Fortunately, by that time the lifelong Nietzschian had converted to Catholicism, thus avoiding the necessity of one last comment on the victory of Spenglerian decadence and the final victory of Zarathustra’s “Last (Wo)Man”.) And it was an active literary lifespan, including definitive works like Eumeswil (1981) and Aladdin’s Problem (1992). After his Weimar period, however, Jünger’s books never attained a mass following. In fact, the works of Jünger’s later life are almost unknown in the English-speaking world. None of the numerous studies I read on the revolutionary conservatives I read ever mentioned that Ernst Jünger was still alive, and that his present work seemed to bear little relationship to the ideas they associated with him.
How do we start in understanding this extraordinarily long and productive life, especially when his work is considered not only in its own right but as paradigmatic of a whole, extraordinarily productive and significant generation of writers? It is certainly not a simple task. Initially one might start with his reputation not in our narrower world. Tom Sunic in part I of his article on Jünger wrote that Ernst Jünger “is today eulogized by all sorts of White nationalists and traditionalists as a leading figure in understanding the endtimes of the West.” Specifically he is of help in charting “new types of dissent and new forms of non-conformist action. Arguably, Jünger could be of help in furnishing some didactic tools for the right choice of non-conformism; or he may provide archetypes of free spirits, which he so well describes in his novels and essays: the rebel, the partisan, the soldier, and the anarchist.” Interpreting such a broad mandate of such a prolific and eclectic writer over such a long life span in such a difficult time as today is not easy.
It might help to reflect briefly on what it is of among all the revolutionary conservatives that makes Ernst Jünger especially popular among some White nationalists and traditionalists. Probably it has much to do with the fact of his life experiences and longevity, spanning the entire twentieth century, as described in Ernst Jünger: A Portrait of an Anarch. Having lived through all these eras, he undoubtedly is a living symbol to some of what a surviving White nationalist in our era would look like. I suspect his popularity might have to do with Jünger’s ability to be “all things to all men.” To WN’s still looking back with nostalgia at the Third Reich, the high position his writings enjoyed and his prominent war service at the Paris high command (even if after the failed plot against Hitler he received a dishonorable discharge) serves him well. To those WN’s and traditionalists of a libertarian bent, the kind that practically canonize Ron Paul, Jünger’s latter day anarchist tendencies (albeit qualified in the form of his term the Anarch) is reassuring.
The free spirits that Sunic describes so well provide the strongest source of continuity in his thought. Other than in this, his early writings in the Weimar period, for which he is mainly known for and studied today by mainstream scholars, diverge greatly from his later writings. Although he is known chiefly for his war works such as Storm of Steel (1925), it was in more theoretical works like Das Arbeiter (1932) that outlined the philosophy of this period. He saw the troubling implications for ethics arising in the modern military and industrial world, but labeled concern for them “romantic.” On freedom, which was of concern to conservatives then as now, he likewise distinguished himself from the other revolutionary conservatives with his easy de facto dismissal of its practical relevance. While rejecting individual freedom as “suspect,” he seized upon “total mobilization” as an ideal situation in which freedom would survive only insofar as it spelled total participation in society. He described an inherently self-contradictory (Hegelian identity) relationship between freedom and obedience: freedom was reduced to “freedom to obey”. While he privately preferred the National Bolsheviks, it is easy to see why the National Socialists were so fond of his early writings.
The later Ernst Jünger
His later writings, starting with On the Marble Cliffs (1939), reflect his disillusionment with National Socialism and his reengagement with ethics and individual freedom. In place of his Das Arbeiter archetypes of “the worker” and “the soldier” (the prototype of the S.S. man), he created a new type, “the woodsman” which is the prototype for the Anarch, defined as “one who strives to preserve by all means his autonomy of thought and his independence in the face of historical trends and the consensus of majorities.” Jünger’s writings returned to the world of the civilian and the individual, to the preservation of freedom against totalitarianism.
At least in this respect, the later Jünger seems to certainly help fulfill Sunic’s search for nonconformist weapons of dissent against today’s multicultural tyranny. The question I have is to what extent, if any, is Jünger’s later thinking representative of or supportive of traditionalism, let alone White nationalism. While he differentiates his Anarch figure from anarchism, it still seems to share certain basic characteristics of anarchistic thought which utterly oppose it to traditionalism or White nationalism. Indeed, Simon Friedrich, an expert on Jünger, characterizedJünger’s position as follows. “ALL external identifications, not excluding racial ones, are ultimately to be separated from”, leading a reader to ask: “So if we have to get rid of our identifications, what are we left with?” Jünger had become a radical individualist.
Jünger was always a consistent thinker. He clearly saw the figure of the Anarch as incompatible with that of the worker or the soldier, the types he saw as logically arising out of his earlier attempts to fashion a vision of a homogenous, unified, and culturally cohesive society. Jünger seems to still have seen a Hegelian identity between freedom and the service and sacrifice any traditionalist or White nationalist vision of society he can envision would have. The fact that the later Jünger switched sides on that issue doesn’t help us with this dilemma. Throughout his life and especially in his later period Jünger always veiled some of the political implications of his views by an ostensible apoliticism. One wonders, if he had chosen to connect anarchistic-tending views toward a congenial, politically oriented outlet, would his ideas have been much different from the political policy prescriptions one sees in Reason magazine or any other of the invariably open-borders libertarian groups?
This is a logical outcome of anarchistic-tending philosophies. Consistent thinkers like Jünger recognize that one cannot have one’s cake and eat it too, and they make the necessary choices. One cannot separate oneself from society by “fleeing into the forest,” as his forest dweller or woodsman (Waldganger) had done, and still remain involved in the struggles and conflicting identities of society. His choice clearly seems to mark him as not one of us, albeit it seems to reflect his characteristic aloofness rather than antagonism to a racial communitarian identity. Imagining his type as just watching from the watchtower, waiting for the right moment to strike, in turn strikes me, as it must have struck those involved in the plot against Hitler who hoped for his assistance, as just wishful thinking. The watchtower metaphor rather brings to mind a quote of his: “I have chosen for myself an elevated position from which I can observe how these creatures (the masses) devour one another”(Der Fragebogen, p. 291). His refusal to involve himself in the Hitler assassination plot was correspondingly another expression of his aloofness “I am convinced … that by political assassination little is changed and above all nothing is helped”(Der Fragebogen, p. 540). One of the ironies of this supreme lover of martial combat is that in politics he was close to a pacifist.
Although the writings of Ernst Jünger should not be seen as infallible truth, I agree with Sunic that he is a potential source of didactic tools for us. I feel a review of some of the other conservative revolutionary writers might be even more useful in this regard. Of all the revolutionary conservatives, Jünger’s writings in many ways are the most problematic. Hence the comment of one of their major periodicals, Deutsches Volkstrum, that “for the conservative man the way of Ernst Jünger would mean a major reorientation.” Other revolutionary conservative writers such as Moeller van den Bruck were also aware of the traditional dilemmas for conservatism, such as the duality between “freedom” and traits such as “allegiance”, “duty”, and “sacrifice.” These thinkers often worked more diligently toward conservative solutions for these dilemmas, typically proposing more complex solutions than Jünger’s streamlined (by ignoring conservative concerns) formulas. As noted above, the conservative critique regarding the weak point of the conservative revolutionary writers is the need to reconcile their ideas with traditional conservative concepts, as exemplified by Jünger. Even if they, unlike Jünger, did not live nearly so far into our present timeframe, their analyses of many things strike one as equally if not more perspicuous.
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mardi, 28 février 2012
An essay on Ernst Jünger's concept of the sovereign individual
EUROPEAN SYNERGIES – SYNERGIES EUROPEENNES – MARS/MARCH 2004
WARRIOR, WALDGAENGER, ANARCH
An essay on Ernst Jünger's concept of the sovereign individual
[TAKEN FROM : http://scot.altermedia.info/ ]
Ernst Jünger says in his acceptance speech for the prestigious Goethe prize in 1982, "I've had the experience that one meets the best comrades in no-man's-land. I've always been pleased with my troops (Mannschaft) in war and my readership in peace. A hand that holds a weapon with honor, holds a pen with honor. It is stronger than any atom bomb, or any rotary press." With these words Jünger bestows an honour on us, his readership. He equates us with his comrades-in-arms in times of peace, but is it a wonder after all? If you are a reader of Ernst Jünger, you must be in either one of two camps, those who consider his opus with genuine admiration or the detractors, those sceptics, "whose contribution does not equal to one blade of grass, one mosquito wing".
Ernst Jünger was both literally and metaphorically a warrior of the 20th Century. Not only did he survive two world wars but also the ideologies of the 20s and 30s. He would cross swords with the bourgeoisie, and later after the war with the Frankfurter School of philosophy and Gruppe 47 proponents. But all of his achievements both on the battlefield of war and on paper serve as a guide to our being in the world, above all his achievements are not only personal, they are also a contribution to us his readership.
Jünger's first book, The Storm of Steel gives us an insight to his character and his future development as an author and individual. It is here that the seeds are sown, that great men of any war are not soldiers; they are warriors, they fight to test themselves and above all to uphold the truth, whatever the reality of that may be. They do not fight for ideologies, but instead they are initiated in earth, blood and fire. By his own admission Jünger was never a good soldier. He admitted to being useless in basic training and the field drills. In his own words: "I had hoped to go from there (the battle field) without being praised. From the beginning, I've always had particular allergy to honors. That this happens to be the case, I probably owe to field marshal Von Hindenberg, who said to me in his sonorous voice: 'Don't you know that this is not good that the king of Prussia has awarded his highest order to such a young man. Nothing much came of my comrades, who received the Pour le Merit in 1864, 1866, and 1870.' He was right. In two world wars, I was only able to achieve Captain. And could be happy that it didn't cost me my head as it did Rommel and other brothers in my order."
Jünger made up for this seeming lack through his bravery and concern for his comrades in no-man's-land. He was one of the few who survived the trenches. He went through the baptism of fire and iron to be wounded 14 times (not an insignificant number). "Exactly at the times when the force of things threatened to hammer the soul soft, men were found who unawares danced it away as over nothingness." Jünger reflects introducing to us the knowledge that the human soul is indeed stronger than the material world, a point not lost on his readers.
He attributes his survival, not to any skill of his own, but rather to the higher power of fate, a portent of his later writings. Jünger leads us through this most nihilistic of wars, with the cool eye of the observer. In its midst the only meaning he can find is a personal one, one of the initiation of life and death. All of those men who survived the horrors of this mass-suicide found one of two things, either the inward strength to master the madness of the material war or insanity. Jünger found out who he was by the end of the war and would carry on this inward strength to the end of his life, not only benefiting himself but his readers too.
Never being concerned about the shells that went off around him, would equally help him in the ideological years after the war. After Versailles Jünger responded to the selling out of Germany by embarking on a war of words with the bourgeois Weimar Republic supporters. Jünger contributed to any cause, be it right or left on the political spectrum, that wanted the best for Germany. These were Jünger's nationalistic years.
The fires of Jünger's youth were not completely spent on the battlefield. Attacking all those people he envisioned as selling out Germany brought him into the centre of many radical parties that longed to have him as spokesman. The Nazis courted him, as did the Communists. He wrote for the various propaganda organs of the right and left. He was even invited to a place on Nazi electoral list, which he luckily declined, a near miss. Later Jünger will stand accused of writing a thinly veiled critique of the Nazi tyrannies in On the Marble Cliffs. The Volkische Beobachter stated that Ernst Jünger..."begibt sich in der Nähe eines Kopfschüsses." Which loosely translated means that he is coming very close to a bullet in the head, one of the methods used by the Nazis for political executions, another brush with death.
Jünger himself says that he had finished with the Nazis after Krystal Nacht, the Nazis' attack on the Jewish businesses of Germany. It didn't take this erudite observer much to recognise that both Hitler and the Nazis were proletarian scum and that nothing higher could ever come from them. On one occasion Jünger was asked what he thought of Hitler, he replied, "Er war nur ein kleiner Mann". (He was just a little man.)
But with the war over that was not the end of his troubles, now he had to deal with the Allies, who believed him to be a contributing ideologue to the Nazi war machine. Jünger refused to undergo the denazifaction program of the Allies and as a result was hung with the prohibition to publish for some years, from 1945 to 1949 to be precise. Now the attacks would come from the liberal left at the head of which was the Frankfurter School. Still Jünger took it all in his stride and would gain in stature in the post war Germany, until the chancellor of Germany, Helmut Kohl and the prime minister of France, Francois Mitterand would visit him in his Wilflingen home. Recognised as a man of letters, his death at 102 was mourned by all.
But what was Jünger's contribution? How are we, his readership, to profit from his experience? We might profit in many ways as the scope of Jünger's opus is vast, covering such diverse topics as botany and etymology or "War as an inner experience" and modern nihilism, but to me the triumvirate of the Krieger (warrior), Anarch, and the Waldgaenger are his legacy and we, his readership, are his inheritors.
Paul Noack in his biography of Jünger's life sums up for us the nature of Jünger's contribution with these words. Jünger believed "…that every failure only comes from ourselves, and therefore can also be overcome in ourselves. That is the way that he (Jünger) wanted to show: he guides Over the Line through the Wall of Time into a future of a different sort."
And it is Jünger's opus that gives us the means to bridge the modern nihilism of this age through the figures of the Krieger, Anarch and Waldgaenger. I have spoken of the significance of Jünger's life from the perspective of a warrior and its potential differences with the soldier as well as its indications for us. Now we must turn to the Anarch and the Waldgaenger, which are both an extension of each other and the warrior.
Let us state unequivocally that the Anarch is not an anarchist, or to use Jünger's own definition, "The Anarch is to the anarchist, what the monarch is to the monarchist..." So it follows that sovereignty is the meaning sought here. The Anarch is sovereign like the monarch. And from this conviction of sovereignty, he does not need to rely on others. But what is the frame in which this becomes necessary or even desirable? In our modern times this approach to politics is desirable, even lifesaving. Again it must be said that Jünger's own character typifies this sort of behaviour in the face of the tyranny of modern political nihilism. The Anarch is capable of survival because he can outwardly assume any form, be it a clerk behind a counter or a soldier in the military, while inwardly he remains free, able to think and observe. He, in his inward migration, does not nihilistically implode into himself, but remains aware of the circumstances around himself but not affected by them. It is not his goal to be dialectically resistant to the tyranny, rather he is observant as if following the Confucian code: "Attacking false systems merely harms you." Aware of the inherent falseness of any sort of tyranny, he does not need to jeopardise his life or that of others by attacking something that itself will come to an end. Rather he becomes a preserver of knowledge, a philosopher, poet and historian. He waits, studies, and preserves until a time when he can contribute. Otherwise it is his duty to pass on what he knows, preserving it for a time when his inheritors can put it to use.
Jünger himself in one description of the Anarch says: "...His inner strength is far greater. In fact, the Anarch's state is the state that each man carries within himself. He embodies the viewpoint of Stirner,...that is the Anarch is unique. Stirner said, "Nothing gets the best of me." The Anarch is really the natural man. He is corrected only by the resistance he comes up against when he wishes to extend his will further than is permitted by the prevailing circumstances. In his ambition to realise himself, he inevitably encounters certain limits; but if they did not exist his expansion would be indefinite..."
"The Anarch can don any disguise. He remains wherever he feels comfortable; but once a place no longer suits him he moves on. He can, for instance, work tranquilly behind a counter or in an office. But upon leaving it at night, he plays an entirely different roll. Convinced of his own inner independence, he can even show a certain benevolence to the powers that be. He's like Stirner, he's a man who, if necessary, can join a group, form a bond with something concrete; but seldom with ideas. The Anarchist is an idealist; but the Anarch, on the contrary, is a pragmatist. He sees what can serve him - him and the common good; but he is closed to ideological excesses. It is in this sense that I define the Anarch's position as a completely natural attitude. First of all, there is a man, and then comes his environment. That is the position I favor at the moment."
Jünger took this position in World War II and before, during the tyranny of the Nazi regime. He became invisible despite his writings in the Wehrmacht. This also enabled him to have contact with the resistance within Paris and the German General Staff itself. His writing entitled The Peace, (Der Friede) was a plan for post-war Europe, although contrary to every Nazi policy, it found a great reception among the Staff, even if fate would never allow it to be played out.
The Anarch gives us the means to observe and understand the materialist age we find ourselves in, without jeopardising our own sovereignty. Because the Anarch is the natural form of man, by Jünger's own definition, we should not be mistaken that we are talking about the individualist or individualism as it has become known today. Individualism itself is an extension of the rampant nihilism of our age and therefore an illness to be overcome. The individual is a private being closed in his own world. The individualist even rejects the naturalness of a social milieu free of the exploitation of the modern servile state. If we are talking of the Anarch as a natural man then we must also mean a man who is social in his form. The sovereign individual is always capable of joining together with others of his kind. It means to be an individual only in the truth with which one faces oneself, otherwise it has nothing to due with individualism. Still this Anarch may not find many people who understand him or what it means to be natural. If this figure is a threat to the status quo, he is an Anarch, if not we must suspect the individual.
By extension the Waldgaenger is the Anarch who has had to retreat into the wilderness because he has been exposed as the Anarch, the free sovereign man and is in danger of being killed. So he must range the forest, or the city for that matter, but it requires a style of resistance to the forces of tyranny. He will have to take up the fight and this is the indication that the Anarch again is not an individual in Jünger's meaning, because although the Waldgaenger can and might have to fight alone, it is futile to do it without support, one cannot live the Hollywood film of the lone hero. This is simply a psychological indoctrination for the masses enforcing the nihilistic idea of the individual and must therefore be recognised for what it is, a baseless myth.
The retreat into the forest comes today under certain conditions which Jünger describes for us, "The Waldgang (retreat into the forest) followed upon proscription. Through it man asserted his will to survive by virtue of his own strength. That was held to be honorable, and it is still today in spite of all indications to the contrary. Waldgängers (Rangers in the forest) are all those, isolated by all great upheavals, and are confronted with ultimate annihilation."
"Since this could be the fate of many, indeed, of all, another defining characteristic must be added: The Waldgaenger (the Ranger) is determined to offer resistance. He is willing to enter into a struggle that appears hopeless. Hence he is distinguished by an immediate relationship to freedom which expresses itself in the fact that he is prepared to oppose the automatism and reject its ethical conclusion of fatalism. If we look at him in this fashion we shall understand the roll which the Waldgang plays not only in our thoughts but also in the realities of our age. Everyone today is subject to coercion and the attempts to banish it are bold experiments upon which depends a destiny far greater than the fate of those who dare to undertake them."
Here we have it in its essence, we see its nature as broad capable of taking many forms, but all to the same end, the preservation of the dignity and freedom of man in its original and most natural form. This is beyond the polemics of modern philosophy and politics. It is the removal of the coercion that has become characteristic of the modern mega-state and its master the banking titan.
Jünger: "The Waldgang is not to be understood as a form of Anarchism directed against world technology (technik), although this is a temptation, particularly for those who strive to regain a myth. Undoubtedly, mythology will appear again. It is always present and arises in a propitious hour like a treasure coming to the surface, but man does not return to the realm of myth, he re-encounters it when the age is out of joint and in the magic circle of extreme danger..."
The Waldgang is the stuff of myth, but not created by the likes of us. Myth has its root in the disclosure of the divine and it is only the natural man, a man who is beyond the concepts of liberty, fraternity and equality that might achieve this. Where the modern concepts of the Enlightenment prevail, so prevails the tyranny of the state. Here the Anarch becomes potent in his reflection even dangerous, he has recognised the tyranny and if he is exposed he must choose the method of retreat into the forest or pay the price.
In our age we cannot underestimate the heritage that Jünger has left us. All around us we see the levelling effects of technology. It becomes more and more difficult to be free in the golden cage of the world state. Who are the men and women that are still sovereign in this age? It is certainly becoming more difficult to find real ‘Anarchs’ devoted to learning and freedom, but they are there; some of them are the readership that Jünger honours so greatly and others are unaware of Jünger, but possess a natural inclination to his thoughts.
These ideas have never been popular, even with some of his loyal readers. Jünger himself had burnt himself on the hot iron of modern democracy. Naturally those who believe in the saying of Winston Churchill, "Democracy is the worst form of government, but the best we've got," will certainly disagree with Jünger's political analysis, but the further we go down this strange path called the modern world, the more we must realise how much Jünger's political analysis rings true. Modern Democracy is a sham, covering up the all too real and undemocratic exploitation of people, wealth, and resources, siphoning it off into the hands of the few, in the name of the many. We have entered the age of the Anarch and who knows what will come next?
ABDALBARR BRAUN - 7 March 2002
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samedi, 18 février 2012
Die Freundschaft zwischen Carl Schmitt und Ernst Jünger
Die Freundschaft zwischen Carl Schmitt und Ernst Jünger: Beredtes Schweigen im stillen Bürgerkrieg |
Geschrieben von: Benjamin Jahn Zschocke |
Ex: http://www.blauenarzisse.de/
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„Carl Schmitt ist in meiner und ich bin in seiner Biographie unvermeidlich“, schrieb Ernst Jünger in sein Tagebuch. Die beiden gegensätzlichen Epochendenker verband eine jahrzehntelange Freundschaft, die erst nach Kriegsende zerfiel. Mit Hitler begriff der Künstler Jünger, nichts in der Politik verloren zu haben. Er vermied folglich jedwede Konzession ans dritte Reich. Der Jurist Schmitt glaubte an seinen gestalterischen Einfluß und wollte den Staat von innen vor der „Bewegung“ retten. Wohlwollend ließ er sich also von Göring zum preußischen Staatsrat ernennen. Martin Tielke setzt dieses widersprüchliche Miteinander in Der stille Bürgerkrieg. Ernst Jünger und Carl Schmitt im dritten Reich ins Verhältnis und beläßt es nicht bei der rein biographischen Betrachtung. Kenntnisreich bringt er die historische Situation mit den sich beeinflußenden Geistern von Jünger und Schmitt in Verbindung. Der Konservative ist nicht nazifizierbar Das galt trotz ihrer unterschiedlichen Rollen im dritten Reich gleichfalls für Jünger und Schmitt. Letzterer glaubte sich mit seiner Staatsratswürde am Beginn einer aussichtsreichen Karriere und entschied sich darum für einen aufgesetzten Opportunismus, ein lautes und überspanntes Mitmachen, um den inneren Widerwillen gegen den NS-Staat zu kaschieren. Doch selbst die tumben Nazis erkannten das irgendwann: Die Karriere endete ruckhaft 1936, noch ehe sie begonnen hatte. Von da an sprach man von Schmitt offiziell im Präteritum. Die folgenden knapp zehn Jahre befand er sich im inneren Exil in Berlin, veröffentlichte sporadisch und nichts Konkretes. Als Lebensmotto wählte er das alte Philosophenwort vom bewußten Schweigen des Denkers in gefährlichen Zeiten. Tielke vermutet dabei, Schmitt verdankte sein Leben einzig seinem Staatsrats-Titel, den er bis zum Kriegsschluß behielt. Auch Jünger wählte den Weg nach innen und verstummte zu Kriegbeginn. Als Angehöriger der Wehrmacht in Paris stationiert, war seine komfortable Unterbringung alles andere als ungefährlich. Schmitt sollte das später sehr entscheidend mißdeuten und zum Vorwurf gegen ihn nutzen. Noch stärker als er war Jünger der Bespitzelung ausgesetzt. Der Denunziant wohnte in Paris Tür an Tür. Tielke entwirft ein bedrückendes Bild des NS-Terrors, des stillen Bürgerkriegs und beschreibt, wie sich die beiden Denker um dessen Charakter und Auswirkungen stritten. Was Schmitt schon früh vorausgesagt hatte, trat nun ein. Unter dem asymmetrischen Krieg, also einem Krieg ohne erkennbares Feind-Freund-Verhältnis, sollte Jünger als Hauptmann besonders leiden. Der Frontverlauf war nicht mehr erkennbar, der Feind stand überall. Der Pour le Mérite-Träger Jünger stand aber für eine ritterliche Kriegsmoral und wich dem zuletzt unerträglichen Druck 1942 mit seiner Versetzung an die Kaukasus-Front aus. Nach Kriegsende verweigerte er sich genau wie Schmitt einem Entnazifizierungsverfahren. Beide stehen deshalb bis heute unter gutmenschlichem Generalverdacht. Auch hier greift Tielke ein und liefert viele schlagende Argumente zur Verteidigung beider. „Der Gegensatz zwischen dem kühl analytischen Juristen und dem bildverhafteten Augenmenschen“ Bis 1945 bestand zwischen Jünger und Schmitt Konsens über die Ablehnung des dritten Reiches. Man kommunizierte im Verborgenen, nicht selten auf Latein, lebte so unauffällig wie möglich und pflegte die Konspiration zusammen mit Jüngers Frau Gretha, der Schmitt sehr zugetan war. Zum Knackpunkt wurde später erst beider schriftstellerische Auseinandersetzung mit dem dritten Reich – besonders Jüngers Roman Heliopolis und Schmitts Werk über Thomas Hobbes Leviathan. Jünger entschlüsselte Schmitts esoterisches Werk nach Tielkes Meinung falsch und sah dessen Position zu seiner vergangenen Gefahrensituation nicht endgültig geklärt. Schmitt hingegen erschien Jüngers mythische und ungeschichtliche Position in Heliopolis zu vage, schwammig und abstakt. In Briefen und Gesprächen verspannte sich die Lage zwischen beiden zunehmend. Anhand dieses exemplarischen Widerspruchs weißt Tielke nach, daß beider Verhalten nicht unbedingt den historischen Umständen entsprang, sondern dafür vielmehr die gegensätzlichen Denkmuster die Begründung lieferten. Während die Ausnahmesituation des dritten Reiches ihnen noch mit existenziellen Fragen darüber hinweghalf, brach der Widerspruch in der Entspannung nun vollends auf und wurde unüberbrückbar. War beider Interesse für Heraklit, Tocqueville und Bloy im Laufe vieler freundschaftlich verbundener Jahre in ihrem Werk auskristallisiert, stand der rationale und dogmatische Gelehrte nun dem immer aufs Neue stauend die Welt betrachtenden Künstler Jünger unversöhnlich gegenüber. Der im dritten Reich zu waghalsige und gescheiterte Schmitt konnte sich mit dem idealistischen und unbeugsamen Jünger auf keine gemeinsame Position zur Vergangenheit einigen. Diese Situation dauerte an bis zu Schmitts Tod. Ein Musterstück handwerklichen Könnens Martin Tielke vollbringt mit seinem Buch Der stille Bürgerkrieg. Ernst Jünger und Carl Schmitt im dritten Reich eine enorme Leistung. Die nur 140 Seiten müssen das Extrakt jahrelanger Recherche gewesen sein: Tielke hat dabei wirklich jeden nur denkbaren Schnipsel gelesen, der das Thema zu erhellen vermag. All das packt er in eine gefällige und aufrichtige Sprache, ordnet es logisch und übersichtlich. Dabei ist sein Essay kein reines Fachbuch für Kenner, das unendliches Fachwissen voraussetzen würde. Über die zusammenaddiert knapp 200 Lebensjahre von Jünger und Schmitt sind schon weitaus entlegenere Bücher verfaßt worden. Tielke wird Kennern und Einsteigern gerecht: Ersterem wird die hohe Recherchetiefe Wegweiser für eigene Forschungen sein können. Dem Einsteiger bietet Tielkes Arbeit einen soliden Überblick über die während der Freundschaft entstandenen Werke von Jünger und Schmitt einerseits und über ihr Denken und Handeln andererseits. Tielke erweist sich dabei als ebenso fähiger Historiker wie Biograph. Martin Tielke: Der stille Bürgerkrieg. Ernst Jünger und Carl Schmitt im dritten Reich. Gebunden mit Schutzumschlag. Berlin: Landt Verlag, 2007. 12 Euro. |
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samedi, 11 février 2012
Ernst Jünger in Paris
Ernst Jünger in Paris: Tobias Wimbauer hält den Bunsenbrenner an des großen Eindeuters Kitschgemälde |
Geschrieben von: Till Röcke |
Ex: http://www.blauenarzisse.de/ |
Natürlich war es unmöglich, in einer Stadt wie Paris einem halbwegs durchschnittlichen Kriegs- bzw. Etappenleben nachzugehen. Zu viel der Ablenkung, wo hin man blickte ein Verlustieren und Frönen. Literaten und Kollaborateure, Theater und Bordelle, es war alles da, und das war es immer schon gewesen. Stadt der Liebe, Stadt der Sehnsucht. Und dann zeitbedingt eine reizende Insel im Schlachtentaumel. Man möchte das alles einmal aufgeschrieben wissen, wüsste man es nicht besser. Denn diesen Dienst hat Ernst Jünger einst gerne übernommen. Als Offizier im besetzten Paris der vierziger Jahre hatte er Zeit und das, wovon er immer schon am meisten besessen hatte: Muse. Der ästhetische Beobachter Jünger-Nestor Tobias Wimbauer ist dem Pariser Treiben nachgegangen. Das Resultat liegt nun als Band in der akribisch-herzlichen „Bibliotope“-Reihe des Hagener Eisenhut Verlags vor. Dabei steht die bereits bekannte, vor einigen Jahren in der FAZ für Aufmerksamkeit sorgende Untersuchung über die amourösen Spielereien Jüngers im Zentrum. Der vernobelte Lackschuh-Landser hielt alles fest, schließlich war er bekennender Diarist. Die Schwierigkeit dabei: In Jüngers Aufzeichnungen dieser Jahre, den nach dem Krieg publizierten „Strahlungen“, mischen sich Fakten und Fiktion – wie es nun mal der erzählenden Dichtung zu eigen ist, mit den doch eher wahrheitsgetreuen Protokollen in Tagebüchern allerdings weniger zu tun hat. Wimbauers Aufsatz „Kelche sind Körper“ weist den „Strahlungen“ denn auch einen hohen Grad an zusammengeklaubten Liebesmotiven der Weltliteratur nach. Als Pointe erklärt Wimbauer die bekannte „Burgunderszene“ zur Nebelkerze. In dieser Miniatur, ein belletristischer Klassiker obszöner Überhöhung, schildert ein am Gläschen nippender Ich-Erzähler sein tiefenentspanntes Beiwohnen einer Bombardierung. Luftkrieg und Lust, Jünger als universalistischer Ästhet. Denn eigentlich, so Wimbauers Lesart, war es dem Autor daran gelegen, die Liaison mit einer gewissen Sophie Ravoux zu verschleiern. In Kirchhorst wartete schließlich die Frau. Der Phallus von Paris Neben der Erotik sah sich Jünger immer wieder gezwungen, den militärischen Dienstpflichten beizukommen. Die Erschießung eines Deserteurs, unter seinem Kommando durchgeführt, stellt sich auch nach Jahrzehnten der Forschung noch als heiße Sache heraus. Diese bildet den zweiten Schwerpunkt des Sammelbandes, der neben dem Herausgeber noch vier weitere Experten zu Wort kommen lässt. Insgesamt ist festzuhalten, dass Wimbauer souverän zusammenstellt, was das französische Abenteuer an wissenschaftlicher Spiegelung bereithält. Gedanke: Man ist eben nie ganz fertig mit Ernst Jünger. Wilflingen ist noch lange nicht genommen. „Désinvolture“, Schnöselei von hoher Qualität, ist das aus Kennermund oft vorgebrachte Prädikat des Jüngerschen Wesens. Dem ist wohl kaum zu widersprechen, zu sehr war das Vorraussetzung, um ein derart bildgewaltiges Werk zu schaffen. Was davon heute noch übrig ist, was sich aus einer weniger zurückgelehnten und auf Gleichnisgenuss bedachten Perspektive davon noch fruchtbar machen lässt, das weiß irgendwann vielleicht die Jünger-Exegese. Vielleicht auch nicht. Skepsis ist geboten. In diese Richtung zumindest bringt es Textbeiträger Alexander Rubel. Als Jüngers Lebensmotto und künstlerische Daseinsberechtigung mag vorerst Rubels lapidare Feststellung herhalten: „Wer die Welt in ihrer Gesamtheit erfasst, muss sich nicht von ephemeren Ereignissen wie Weltkriegen und Massenvernichtung beunruhigen lassen.“ Tobias Wimbauer (Hg.): Ernst Jünger in Paris. Ernst Jünger, Sophie Ravoux, die Burgunderszene und eine Hinrichtung. Eisenhut Verlag: Hagen Berchum 2011. 12,90 Euro |
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jeudi, 09 février 2012
Ernst Jünger @ http://www.centrostudilaruna.it/
Ernst Jünger @ http://www.centrostudilaruna.it/
Sezione multilingue dedicata a Ernst Jünger (29.III.1895-17.II.1998), alla sua opera e al suo pensiero.
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samedi, 28 janvier 2012
Armin Mohler: discípulo de Sorel e teórico da vida concreta
Armin Mohler: discípulo de Sorel e teórico da vida concreta
O “mito”, como a “representação de uma batalha”, surge espontaneamente e exerce um efeito mobilizador sobre as massas, incute-lhes uma “fé” e torna-as capazes de actos heróicos, funda uma nova ética: essas são as pedras angulares do pensamento de Georges Sorel (1847-1922). Este teórico político, pelos seus artigos e pelos seus livros, publicados antes da primeira guerra mundial, exerceu uma influência perturbante tanto sobre os socialistas como sobre os nacionalistas.
Contudo, o seu interesse pelo mito e a sua fé numa moral ascética foram sempre – e continuam a sê-lo apesar do tempo que passa – um embaraço para a esquerda, da qual ele se declarava. Podemos ainda observar esta reticência nas obras publicadas sobre Sorel no fim dos anos 60. Enquanto algumas correntes da nova esquerda assumiram expressamente Sorel e consideravam que a sua apologia da acção directa e as suas concepções anarquizantes, que reclamavam o surgimento de pequenas comunidades de “produtores livres”, eram antecipações das suas próprias visões, a maioria dos grupos de esquerda não via em Sorel mais que um louco que se afirmava influenciado por Marx inconscientemente e que trazia à esquerda, no seu conjunto, mais dissabores que vantagens. Jean-Paul Sartre contava-se assim, evidentemente, entre os adversários de Sorel, trazendo-lhes a caução da sua notoriedade e dando, ipso facto, peso aos seus argumentos.
Quando Armin Mohler, inteiramente fora dos debates que agitavam as esquerdas, afirmou o seu grande interesse pela obra de Sorel, não foi porque via nele o “profeta dos bombistas” (Ernst Wilhelm Eschmann) nem porque acreditava, como Sorel esperara no contexto da sua época, que o proletariado detivesse uma força de regeneração, nem porque estimava que esta visão messiânica do proletariado tivesse ainda qualquer função. Para Mohler, Sorel era um exemplo sobre o qual meditar na luta contra os efeitos e os vectores da decadência. Mohler queria utilizar o “pessimismo potente” de Sorel contra um “pessimismo debilitante” disseminado nas fileiras da burguesia.
Rapidamente Mohler criticou a “concepção idílica do conservantismo”. Ao reler Sorel percebeu que é perfeitamente absurdo querer tudo “conservar” quando as situações mudaram por todo o lado. A direita intelectual não deve contentar-se em pregar simplesmente o bom-senso contra os excessos de uma certa esquerda, nem em pregar a luz aos partidários da ideologia das Luzes; não, ela deve mostrar-se capaz de forjar a sua própria ideologia, de compreender os processos de decadência que se desenvolvem no seu seio e de se desembaraçar deles, antes de abrir verdadeiramente a via a uma tradução concreta das suas posições.
Uma aversão comum aos excessos da ética da convicção
Quando Mohler esboça o seu primeiro retrato de Sorel, nas colunas da revista Criticón, em 1973, escreve sem ambiguidades que os conservadores alemães deveriam tomar esse francês fora do comum como modelo para organizar a resistência contra a “desorganização pelo idealismo”. Mohler partilhava a aversão de Sorel contra os excessos da ética da convicção. Vimo-la exercer a sua devastação na França de 1890 a 1910, com o triunfo dos dreyfusards e a incompreensão dos Radicais pelos verdadeiros fundamentos da Cidade e do Bem Comum, vimo-la também no final dos anos 60 na República Federal, depois da grande febre “emancipadora”, combinada com a vontade de jogar abaixo todo o continuum histórico, criminalizando sistematicamente o passado alemão, tudo taras que tocaram igualmente o “centro” do tabuleiro político.
Para além destas necessidades do momento, Mohler tinha outras razões, mais essenciais, para redescobrir Sorel. O anti-liberalismo e o decisionismo de Sorel haviam impressionado Mohler, mais ainda do que a ausência de clareza que recriminamos no pensamento soreliano. Mohler pensava, ao contrário, que esta ausência de clareza era o reflexo exacto das próprias coisas, reflexo que nunca é conseguido quando usamos uma linguagem demasiado descritiva e demasiado analítica. Sobretudo “quando se trata de entender elementos ou acontecimentos muito divergentes uns dos outros ou de captar correntes contrárias, subterrâneas e depositárias”. Sorel formulou pela primeira vez uma ideia que muito dificilmente se deixa conceptualizar: as pulsões do homem, sobretudo as mais nobres, dificilmente se explicam, porque as soluções conceptuais, todas feitas e todas apropriadas, que propomos geralmente, falham na sua aplicação, os modelos explicativos do mundo, que têm a pretensão de ser absolutamente completos, não impulsionam os homens em frente mas, pelo contrário, têm um efeito paralisante.
Ernst Jünger, discípulo alemão de Georges Sorel
Mohler sentiu-se igualmente atraído pelo estilo do pensamento de Sorel devido à potencialidade associativa das suas explicações. Também estava convencido que este estilo era inseparável da “coisa” mencionada. Tentou definir este pensamento soreliano com mais precisão com a ajuda de conceitos como “construção orgânica” ou “realismo heróico”. Estes dois novos conceitos revelam a influência de Ernst Jünger, que Mohler conta entre os discípulos alemães de Sorel. Em Sorel, Mohler reencontra o que havia anteriormente descoberto no Jünger dos manifestos nacionalistas e da primeira versão do Coração Aventureiro (1929): a determinação em superar as perdas sofridas e, ao mesmo tempo, a ousar qualquer coisa de novo, a confiar na força da decisão criadora e da vontade de dar forma ao informal, contrariamente às utopias das esquerdas. Num tal estado de espírito, apesar do entusiasmo transbordante dos actores, estes permanecem conscientes das condições espacio-temporais concretas e opõem ao informal aquilo que a sua criatividade formou.
O “afecto nominalista”
O que actuava em filigrana, tanto em Sorel como em Jünger, Mohler denominou “afecto nominalista”, isto é, a hostilidade a todas as “generalidades”, a todo esse universalismo bacoco que quer sempre ser recompensado pelas suas boas intenções, a hostilidade a todas as retóricas enfáticas e burlescas que nada têm a ver com a realidade concreta. É portanto o “afecto nominalista” que despertou o interesse de Mohler por Sorel. Mohler não mais parou de se interessar pelas teorias e ideias de Sorel.
Em 1975 Mohler faz aparecer uma pequena obra sucinta, considerada como uma “bio-bibliografia” de Sorel, mas contendo também um curto ensaio sobre o teórico socialista francês. Mohler utilizou a edição de um fino volume numa colecção privada da Fundação Siemens, consagrado a Sorel e devida à pluma de Julien Freund, para fazer aparecer essas trinta páginas (imprimidas de maneira tão cerrada que são difíceis de ler!) apresentando pela primeira vez ao público alemão uma lista quase completa dos escritos de Sorel e da literatura secundária que lhe é consagrada. A esta lista juntava-se um esboço da sua vida e do seu pensamento.
Nesse texto, Mohler quis em primeiro lugar apresentar uma sinopse das fases sucessivas da evolução intelectual e política de Sorel, para poder destacar bem a posição ideológica diversificada deste autor. Esse texto havia sido concebido originalmente para uma monografia de Sorel, onde Mohler poria em ordem a enorme documentação que havia reunido e trabalhado. Infelizmente nunca a pôde terminar. Finalmente, Mohler decidiu formalizar o resultado das suas investigações num trabalho bastante completo que apareceu em três partes nas colunas da Criticón em 1997. Os resultados da análise mohleriana podem resumir-se em 5 pontos:
Uma nova cultura que não é nem de direita nem de esquerda
1. Quando falamos de Sorel como um dos pais fundadores da Revolução Conservadora reconhecemos o seu papel de primeiro plano na génese deste movimento intelectual que, como indica claramente o seu nome, não é “nem de direita nem de esquerda” mas tenta forjar uma “nova cultura” que tomará o lugar das ideologias usadas e estragadas do século XIX. Pelas suas origens este movimento revolucionário-conservador é essencialmente intelectual: não pode ser compreendido como simples rejeição do liberalismo e da ideologia das Luzes.
2. Em princípio, consideramos que os fascismos românicos ou o nacional-socialismo alemão tentaram realizar este conceito, mas estas ideologias são heresias que se esquecem de levar em consideração um dos aspectos mais fundamentais da Revolução Conservadora: a desconfiança em relação às ideias que evocam a bondade natural do homem ou crêem na “viabilidade” do mundo. Esta desconfiança da RC é uma herança proveniente do velho fundo da direita clássica.
3. A função de Sorel era em primeiro lugar uma função catalítica, mas no seu pensamento encontramos tudo o que foi trabalhado posteriormente nas distintas famílias da Revolução Conservadora: o desprezo pela “pequena ciência” e a extrema valorização das pulsões irracionais do homem, o cepticismo em relação a todas as abstracções e o entusiasmo pelo concreto, a consciência de que não existe nada de idílico, o gosto pela decisão, a concepção de que a vida tranquila nada vale e a necessidade de “monumentalidade”.
Não há “sentido” que exista por si mesmo.
4. Nesta mesma ordem de ideias encontramos também esta convicção de que a existência é desprovida de sentido (sinnlos), ou melhor: a convicção de que é impossível reconhecer com certeza o sentido da existência. Desta convicção deriva a ideia de que nunca fazemos mais que “encontrar” o sentido da existência forjando-o gradualmente nós próprios, sob a pressão das circunstâncias e dos acasos da vida ou da História, e que não o “descobrimos” como se ele sempre tivesse estado ali, escondido por detrás do ecrã dos fenómenos ou epifenómenos. Depois, o sentido não existe por si mesmo porque só algumas raras e fortes personalidades são capazes de o fundar, e somente em raras épocas de transição da História. O “mito”, esse, constitui sempre o núcleo central de uma cultura e compenetra-a inteiramente.
5. Tudo depende, por fim, da concepção que Sorel faz da decadência – e todas as correntes da direita, por diferentes que sejam umas das outras, têm disso unanimemente consciência – concepção que difere dos modelos habituais; nele é a ideia de entropia ou a do tempo cíclico, a doutrina clássica da sucessão constitucional ou a afirmação do declínio orgânico de toda a cultura. Em «Les Illusions du progrès» Sorel afirma: “É charlatanice ou ingenuidade falar de um determinismo histórico”. A decadência equivale sempre à perda da estruturação interior, ao abandono de toda a vontade de regeneração. Sem qualquer dúvida, a apresentação de Sorel que nos deu Mohler foi tornada mais mordaz pelo seu espírito crítico.
Uma teoria da vida concreta imediata
Contudo, algumas partes do pensamento soreliano nunca interessaram Mohler. Nomeadamente as lacunas do pensamento soreliano, todavia patentes, sobretudo quando se tratou de definir os processos que deveriam ter animado a nova sociedade proletária trazida pelo “mito”. Mohler absteve-se igualmente de investigar a ambiguidade de bom número de conceitos utilizados por Sorel. Mas Mohler descobriu em Sorel ideias que o haviam preocupado a ele também: não se pode, pois, negar o paralelo entre os dois autores. As afinidades intelectuais existem entre os dois homens, porque Mohler como Sorel, buscaram uma “teoria da vida concreta imediata” (recuperando as palavras de Carl Schmitt).
Karlheinz Weissmann
traduzido por Rodrigo Nunes
causanacional.net
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jeudi, 19 janvier 2012
Ernst Jünger und der Rausch
Thomas Michael
Ernst Jünger und der Rausch
Ex: http://www.godenholm.de/
Merkwürdig, das die Zeit meines tiefsten Eintauchens in die Welt Jüngers mit seinem Tod zusammenfiel.
Der alte Weise ist fort- und überall, wie erwartet, die "falschen" Zitate. Der ganze plakative Kram, wiederholt von Leuten, denen eine Seite des Meisters wohl immer fremd bleiben wird. Mich langweilen die Diskurse über Jüngers politischen Hintergrund. Fehlt doch dem weitaus größten Teil der Leute, die Ihn und sein Schaffen beurteilen, ein wichtiger Ansatz zum Verständnis einiger seiner schönsten Texte.
Das Miteinander von Rauschzeit und Disziplin förderte bei Ihm, dem durch seinen ausgeprägten Hang zum Träumerischen "vorbelasteten", wahre Schätze zu Tage. Betrachtungsweisen, wie die folgende aus der wundervollen Erzählung "Besuch auf Godenholm", werden dem Adepten als die Schilderung eines bekannten Einstieges vertraut sein; "Myriaden von Molekülen beugten sich der Harmonie. Hier wirkten die Gesetze nicht mehr unter dem Schleier der Erscheinung; der Stoff war so ätherisch, daß er sie offen spiegelte. Wie einfach und zwingend das alles war." Dem Text zu Grunde, lagen ein gemeinsames "Erlebnis" mit Albert Hofmann (dem Erfinder von LSD, wie wir alle wissen) und Heribert Konzett im Jahre 1951 in der Schweiz und ein Winterabend auf der keltischen Heuneburg. Bemerkenswert ist, daß Jünger seine so gesammelten Eindrücke in die nordische Welt transferiert. Die Einzigartigkeit dieser Verbindung macht die Novelle zu etwas ganz besonderen. Drogenbedingten Ursprunges, bilden Mythos, Sonne, Sein und Sinn die Komponenten für eine Geschichte voller Bilder und herrlicher Landschaften, die den geneigten Leser mehr als einmal in Verzückung geraten lassen.
Sein Rauschmittelkonsum soll hier jedoch keineswegs überbewertet werden; er war ein Teil seines Lebens, nicht mehr, aber auch nicht weniger. Doch es entbehrt nicht einer gewissen Komik, daß Leute, die Grenzerfahrungen solcher Art verdammen, Ausschnitte seines Schaffens geradezu glorifizieren. Das zeigt um so mehr, daß seine dekadente (und äußerst fruchtbare) Seite diesen "technischen Intelligenzen" unergründlich war und bleiben wird, aber doch den "Sesam öffne Dich" zu vielen seiner Werke darstellt. Peinlich, wenn gerade "linke", sogenannte weltoffene Kreise exakt jenen Sachverhalt verkennen.
Sein "anmaßendes" Schreiben basiert auf einem Erkenntnisstand, der fernab einer Begrenzung durch zeitlich-aktuelle Dinge liegt. Aus diesem Grunde haben tagespolitische Dinge, besonders in späteren Werken, nie mehr als eine Statistenrolle gespielt. Seinen, in den verschiedenen Blättern des Neuen Nationalismus erschienenen Schriften (Arminius, Standarte, die Kommenden, Aufmarsch- den er selbst herausbrachte usw.) hat er nicht ohne Grund den Eingang in seine gesammelten Werke verwehrt. Er "lebte damals in der Idee" und natürlich war er Nationalist, doch diese 8 Jahre (1925-33) stellen nur einen Teil seines Schaffens dar. Ihre Wichtigkeit steht jedoch außer Frage. Hier wurden die Grundsteine gelegt, flossen zunehmend Rauschhaftes und metaphysische Betrachtungen in seine Werke ein; "Wer vom Zweifel geschmeckt hat, dem ist bestimmt, nicht diesseits, sondern jenseits der Grenzen der Klarheit nach dem Wunderbaren auf Suche zu gehen". Noack schreibt in seiner Jünger-Biographie treffend "er sieht die Heraufkunft einer neuen Zeit und erkennt, zugleich hellsichtig und verblendet, ihre Gefahren".
Wäre er ohne sein Festhalten am Irrationalen und Magischen zum Erklären der inneren und äußeren Welt fähig gewesen? Vielleicht ermöglichte erst der Rückzug nach innen Scharfsicht und Weitblick. Fakt ist, wenn man später erschienene Werke liest, wird man erkennen, wie wenig von seinen national-revolutionären Gedanken Alter und Reifung überlebt haben.
Wer über die "Schlüssel" verfügt und z.B. das "abenteuerliche Herz" richtig liest, dem werden seine persönlichen Betrachtungen so viel mehr geben als der politische Anteil an diesem Jünger, denn Liebe zur Heimat und Wut angesichts des liberalistischen Unvermögens der Menschen in einer "Republik ohne Gebrauchsanleitung"(Alfred Döblin), stellen keine politischen Sachverhalte dar. Es muß betont werden, das seine Sicht der Dinge aus "vier Jahren tödlicher Anstrengung und dem Versailler Vertrag" resultierte. Das erklärt vieles, und man sollte nicht den Fehler begehen, heutige Ansichten in die damalige Zeit zu projizieren. Ein Großteil der Jugend zog mit Begeisterung in den Krieg. Das mag heute unzeitgemäß klingen, hatte damals aber ohne Zweifel seine Berechtigung. Deshalb kann man in einem musischen Menschen wie Jünger einfach keinen politischen Schriftsteller sehen. Nicht aus Gründen des >nicht-festlegen-wollens<, sondern ganz einfach aus der Tatsache heraus, daß er eben diese politischen Veränderungen aus einer anderen Perspektive sah; als eine Periodik, die sehr wohl Rahmenbedingungen schafft, doch letzten Endes nicht fähig ist, wirkliche Veränderungen herbeizuführen.
"Durch einen Zeitraum von mehr als hundert Jahren hindurch spielten sich die »Rechte« und die »Linke« die durch optische Täuschung des Wahlrechts geblendeten Massen wie Fangbälle zu; immer schien bei dem einen Gegner noch eine Zuflucht vor den Ansprüchen des anderen zu sein. Heute enthüllt sich in allen Ländern immer eindeutiger die Tatsache ihrer Identität, und selbst der Traum der Freiheit schwindet wie unter den eisernen Griffen einer Zange dahin. Es ist ein großartiges und furchtbares Schauspiel, die Bewegungen der immer gleichförmiger gebildeten Massen zu sehen, denen der Weltgeist seine Fangnetze stellt. Jede dieser Bewegungen trägt zu einer schärferen und unbarmherzigeren Erfassung bei, und es wirken hier Arten des Zwanges, die stärker als die Folter sind: so stark, daß der Mensch sie mit Jubel begrüßt. Hinter jedem Ausweg, der mit den Symbolen des Glückes gezeichnet ist, lauern der Schmerz und der Tod. Wohl dem, der diese Räume gerüstet betritt."
Er war gerüstet. Seine ganz eigene Symbiose aus Disziplin und Rauschzeit ließen ihn sämtliche Umwälzungen mit anderen Augen sehen. Er hat sich seine Nische, seine Rückzugsmöglichkeit bewahrt und mit Sicherheit war der Rausch eine der "Zisternen, aus denen er sein Leben lang schöpfte" (Ernst v. Salomon) und die seinem Schaffen einen zeitlosen Glanz verleihen.
Trennen wir uns doch von der Vorstellung, das Drogen die Totengräber eines funktionierenden Staates sind, denn erstens gibt es keinen solchen, und zweitens sollte man Symptome nicht für die Ursache halten. Freilich sind mir all die weißen Pülverchen und Pillen zuwider, doch passen sie ohne Zweifel in diese ekelhaft schnelle Zeit und helfen die Räder derselben am Laufen zu halten, was große Pupillen allerorts (auch in politisch und wirtschaftlich bedeutenden Kreisen) beweisen.
"Dagegen verliert sich mit der Kultur der stille Genuß an den Rändern der Hanf- und Mohngärten. Einerseits wird die Beschleunigung zu stark, zum anderen genügen innerhalb des Schwundes, oder scheinen zu genügen, die mechanisch produzierten und reproduzierten Bilder, die kulissenhaft das Blickfeld umstellen und einengen. Die kollektiven Träume verdrängen die individuellen, die innere Bildwelt wird durch die äußere überdeckt. Freilich bleibt immer ein Durst, ein mahnendes Gefühl der Leere zurück - die Ahnung, daß die Tage unfruchtbar verbraucht werden."
Es mutet grotesk an, das Drogen rein pflanzlicher Natur, nicht nur aus rechtlicher Sicht, auf eine Stufe mit all den chemischen, bastardischen Abbildern gestellt werden. In unserem Hochmut der Natur gegenüber gewinnen wir immer neue und stärker konzentrierte Substanzen ohne zu erkennen, daß das von der Natur Gegebene so viel einfacher erhöht werden kann. Aber in einer so extrovertiert ausgerichteten Gesellschaft wie der unseren werden Drogen, die aufputschend, übertünchend und verdrängend wirken, also wirklichen Schaden geistiger und körperlicher Natur verursachen, immer eine größere Verbreitung haben als solche mit denen Annäherungen möglich sind - " Die Droge wird zum Treibstoff degradiert".
Das erklärt sich aus der Tatsache heraus, das eben solche Psychedelika (z.B. Meskalin, Psylocibin) nur das zu Tage fördern, was bereits in uns ruht. Weil sich nun aber Tag für Tag eine so unerhört große Flut von unterhaltungstechnischem Müll und Flachheit über uns wälzt, beschäftigt man sich, nur zu oft, mit im Grunde unwichtigen Dingen und vergisst, tief in sich hinein zu hören. Die Menschen wirken so leer, sie haben einfach kein Interesse zu hinterfragen und Gesichter hinter den Masken zu sehen, egal, ob in Politik oder in den Medien. Mir liegt es fern, in jenen weltverbesserischen Ton zu verfallen, der diversen Leuten vergangener Zeiten eigen war, mich ärgern nur die Blindheit und Ignoranz der Masse in Bezug auf den Umgang mit Drogen.
Natürlich ist hier das Alter von großer Bedeutung. Ein Mensch, der reich an Lebenserfahrung ist, viel gesehen, viel erlebt und noch wichtiger, viel verarbeitet hat verfügt über einen großen Fundus aus dem er schöpfen kann. Freilich lauern hier auch Gefahren. Denn wenn das Verdrängen größer war als das Verarbeiten kann das plötzliche Bewußtwerden Dämme im Inneren brechen lassen, die als sicher galten. Man wird sich vielleicht vertaner Möglichkeiten bewußt werden. Also doch lieber in jungen Jahren?
Und genau hier muß den Eltern, und eben nicht dem Staat die entscheidende Rolle zufallen. Ein verantwortungsvoller Umgang mit Drogen muß sich nicht auf der Negation sämtlicher gründen, sondern vielleicht auf dem Nebeneinander der "richtigen". Die Mißerfolge der staatlichen Präventionsmaßnahmen bekräftigen dies. Sicherlich stellt eine drogenfreie Gesellschaft das Optimum dar, aber das hieße eine von Sehnsüchten und unerfüllten Hoffnungen freie Ordnung und das klingt mir doch sehr utopisch. Solange Drogen nicht sinnvoll in eine Ordnung integriert sind, werden immer Sucht, Elend und Kriminalität im Fahrwasser des Rausches folgen. Hier muß ihnen ein Platz zukommen, der auf Verehrung und damit einhergehend, auf Respekt basiert. Denn genau diese, mit rationellen Sichtweisen nicht begründbare Verehrung wäre ein wirksamerer Schutz vor Mißbrauch als alle repressiven Maßnahmen zusammen, denn sie käme von Innen. Im übrigen sind all diese Probleme hausgemacht, denn wenn man sich wenigstens hier auf die Ursprünge besinnen würde, gäbe es bedeutend weniger aus dem Gebrauch resultierende Fatalitäten. Es würde wohl kaum zu einem massenhaften Verzehr diverser Pilze oder Kakteen kommen. So aber erscheinen ständig neue Drogen auf dem Markt, deren Risiken überhaupt nicht abschätzbar sind. Pflanzliche Traumfänger spielen im heutigen Drogenkonsum nur eine untergeordnete Rolle; "der Rausch als Siegeszug der Pflanze durch die Psyche" wirkt heute anachronistisch, da der Rausch in den seltensten Fällen noch auf Pflanzen im originären Sinne zurückzuführen ist.
- ein Koka-schnupfender Yuppie, ein siechender Fixer, ein betrunkener Prolet - Jünger schrieb richtig, daß (hier) Kräfte und Stoffe auf(treten), "die zwar aus der Natur gewonnen, doch zu stark, zu vehement für das natürliche Fassungsvermögen sind." Also wozu die Chemie? Wenn man Grenzerfahrungen in der Richtung machen will, dann mit der Frucht, welche die Erde hervorbringt, denn jede Pflanze hat ihre Bedeutung, keine existiert umsonst.
Es ist widerlich zu sehen, wie die Menschen auf Kokain ihrem (einzigen) Gott, der Eitelkeit, tausende kleine Opfer bringen oder wie in Bars und Clubs die kollektive Oberflächlichkeit zum Maß aller Dinge wird, wie Unterhaltung und Moderation gleich welcher Art den Menschen auf so wunderbare Weise in einem Netz von selbstgeschaffenen Zwängen zu fangen helfen.
Jünger soll 1937 zu Ernst von Salomon vor einem Kino stehend gesagt haben "Ich habe mir einen erhöhten Standort ausgesucht, von dem ich beobachte, wie sich die Wanzen gegenseitig auffressen." Was kann man dem noch hinzufügen? Anmaßung und Ehrlichkeit, Jünger eben.
Ich bin oft versucht, in ihm das Abbild einer geistigen Elite zu sehen, die diesen Status nur erreichte, weil sie auch mit der "anderen Seite" vertraut war. Jüngers Ansichten änderten sich aber nicht durch den bloßen Gebrauch von Drogen. Vielmehr fügten sich seine, auf diese Weise gesammelten Erfahrungen als Teile in das Puzzle Ernst Jünger ein, dessen Texte, nicht zuletzt aufgrund dieser Tatsache, auch noch in hundert Jahren ihre Leser finden werden.
Bleibt mir anzumerken, das Jünger bei der Wahl seiner "Schlüssel" nicht gerade wählerisch war. Hier sollte man doch heutzutage mit mehr Respekt und Vorsicht zu Werke gehen und lediglich die Drogen, die rein pflanzlichen Ursprunges sind, in Betracht ziehen (natürlich unter Berücksichtigung der zweifelsohne vorhandenen Risiken physischer und psychischer Natur). Ich verschließe meine Augen jedoch nicht vor der Realität mit all ihren gesetzlichen Beschränkungen und gesellschaftlichen Konventionen auf der einen Seite und bedenkenlos Genußsüchtigen auf der anderen. Die Verbreitung und Mehrung der Akzeptanz in kleinen Kreisen, nach Jünger´schem Vorbild, erschien mir immer ein wenig elitär, hat aber vielleicht ihre Richtigkeit!
"Das Beste an unseren Genüssen ist nicht Entdeckung; es ist Wiederkehr. Das ist der Teil, an dem sich die Götter mitfreuen. Und selbst in der Entdeckung liegt Wiederkehr. Wir können nichts entdecken als unser Inneres. Wir können nur befahren, was unsichtbar bereits erfahren war. Wir reifen zu unseren Entdeckungen heran."
Zitate, soweit nicht anders kenntlich gemacht, Ernst Jünger
Literaturempfehlungen :
- "Besuch auf Godenholm" (enthalten in Band 15 der ges.Werke)
- "Annäherungen"
- "Das abenteuerliche Herz" (1. Fassung)
- "Strahlungen" Halle, 1998
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dimanche, 15 janvier 2012
Ernst Jünger: Pionier der Entschleunigung
Ernst Jünger: Pionier der Entschleunigung
Ex: http://www.ernst-juenger.org/
Wieder einmal muss ich mich bei Tobias Wimbauer bedanken für den Hinweis auf diesen Artikel aus "Jungen Freiheit":
JF, 2/11 / 14. Oktober 2011
Michael Böhm
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vendredi, 13 janvier 2012
A Guerra como Experiência Interior
A Guerra como Experiência Interior
Análise de uma Falsa Polêmica
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mardi, 27 décembre 2011
Jünger et ses dieux...
Jünger et ses dieux...
Ex: http://metapoinfos.hautetfort.com
Les éditions Orizons ont publié en début d'année un essai de Michel Arouimi intitulé Jünger et ses dieux. Michel Arouimi est maître de conférence en littérature comparée à l'Université du Littoral de la région Nord-Pas-de-Calais.
"Le sens du sacré, chez Ernst Jünger, s'est d'abord nourri de l'expérience de la guerre, ressentie comme une manifestation de la violence que le sacré, dans ses formes connues, semble conjurer. D'où le désir, toujours plus affirmé chez Jünger, d'une nouvelle transcendance. Mieux que dans ses pensées philosophiques, ces problèmes se poétisent dans ses grands romans, où revivent les mythes dits premiers. Or, ces romans sont encore le prétexte d'un questionnement des pouvoirs de l'art, pas seulement littéraire. Dans la maîtrise des formes qui lui est consubstantiel, l'art apparaît comme une réponse aux mêmes problèmes que s'efforce de résoudre le sacré. La réflexion de Jünger sur l'ambiguïté du sens de ces formes semble guidée par certains de ses modèles littéraires. Rimbaud a d'ailleurs laissé moins de traces dans son oeuvre que Joseph Conrad et surtout Herman Melville, dont le BillyBudd serait une source méconnue du Lance-pierres de Jünger. La fréquentation de ses " dieux littéraires ", parmi lesquels on peut compter Edgar Poe et Marcel Proust. a encore permis à Jünger d'affiner son intuition de l'ordre mystérieux qui s'illustre aussi bien dans la genèse de l'oeuvre écrite que dans un destin humain."
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dimanche, 25 décembre 2011
Jünger, una vita vissuta come esperienza primordiale
Jünger, una vita vissuta come esperienza primordiale
Autore: Franco Volpi
Ex: http://www.centrostudilaruna.it/
Quando nelle conversazioni con il vecchio Jünger si toccava l’immancabile motivo della Grande Guerra, sul suo volto imperturbabile si disegnava una leggera espressione di insofferenza. Con gli interlocutori più giovani, digiuni di esperienze militari, essa volgeva rapidamente in benevola comprensione.
Perché ecco la domanda che la mimica del volto bastava a esplicitare ridurre l’opera di una vita al suo primo episodio? Perché, nonostante egli avesse continuato a pensare e a scrivere per oltre mezzo secolo, la critica incollava così pervicacemente la sua immagine all’attivismo eroico degli inizi?
La fama precoce ottenuta con i diari di guerra lo ha effettivamente inseguito come un’ombra. E se in origine essa contribuì a dare la massima visibilità alla sua intera produzione, letteraria e saggistica, in seguito ne ha pesantemente condizionato la ricezione, ostacolando una più attenta considerazione delle profonde trasformazioni, di contenuto e di stile, avvenute nel corso degli anni. Perfino il raffinato Borges ricordava di lui soltanto Bajo la tormenta de acero, e nient’altro. Il tenente Sturm, un racconto in gran parte autobiografico, pubblicato a puntate nel 1923 e ora tradotto da Alessandra Iadicicco per Guanda, ci riporta a quel primo Jünger, offrendo uno splendido condensato dei motivi che resero così incisiva la sua elaborazione letteraria della guerra. Di nuovo ammiriamo il talento con cui il giovane scrittore avvince anche il lettore più distratto e, con la sola forza della descrizione, lo porta a toccare quell’esperienza limite. Di nuovo la sua prosa, così scandalosamente indifferente a carneficine e distruzioni, evoca le “battaglie di materiali” in cui il valore del combattente è ridotto a zero e ciò che conta è solo la potenza di fuoco “per metro quadro”. La prospettiva di Jünger scardina le tradizionali interpretazioni della guerra per esibirci il fenomeno allo stato puro. Dove altri vedevano allora la lotta per la patria, gli interessi del capitalismo o le rivendicazioni dello chauvinismo, egli coglie l’esperienza primordiale in cui la vita scopre le sue carte, in cui, nel suo pericoloso sporgersi verso l’insensato nulla, essa manifesta la sua essenza più profonda e contraddittoria. Fino all’assurdo caso, evocato nel racconto, del “camerata” che viene spinto dal terrore della morte a suicidarsi. Dal suo lungo stare in tali situazioni limite la letteratura di Jünger trae indubbiamente la sua forza: da inchiostro, si fa vita. Ma sarebbe riduttivo costringerla lì. Sulle scogliere di marmo, per esempio, per lo scenario fantastico, il timbro stilistico e la tensione narrativa va ben oltre la diaristica di guerra. E così pure altri testi, primo fra tutti lo stupendo Visita a Godenholm del 1952, che attende ancora di essere tradotto.
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Tratto da Repubblica del 2 novembre 2000.
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dimanche, 04 décembre 2011
"EL TRABAJADOR" DE ERNST JÜNGER
"EL TRABAJADOR" DE ERNST JÜNGER
Ex: http://sangreyespiritu.blogspot.com/
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